Immaginate due ragazzini in un sobborgo inglese, stanchi di ingoiare le solite cantilene pop patinate e pronti a mettere alla berlina il mondo intero con le loro confessioni più intime.
Metteteci un po’ di pioggia, un pizzico di malinconia di provincia e un gran bisogno di urlare contro tutto ciò che non va.
Aggiungete un nome che suona come un grido di battaglia o un pianto catartico: Tears for Fears.
La traduzione letterale in italiano – “Lacrime di Paura” – racconta già qualcosa di segreto e universale: c’è chi si libera del trauma con un singhiozzo, chi con un fremito di collera e chi, come questi due, con una sferzata di synth-pop che ti entra nelle orecchie e non se ne va più.
Le radici di questa faccenda affondano in ferite infantili, viaggi psicologici e “urla primordiali”.
Tra un tea e una birretta, un certo giorno i Tears for Fears si sono detti: “Perché non trasformare tutto questo in musica e riempire gli stadi?”.
Fra un colpo di batteria elettronica e una linea di basso più cupa di un piovoso crepuscolo inglese, i Tears for Fears hanno firmato alcuni tra i brani più potenti di un decennio pieno di lustrini e contraddizioni. Brani che parlano di dolori vecchi come la notte, di traumi da tirare fuori a suon di note, e di quella voglia insaziabile di dire a te stesso che puoi farcela, che puoi urlare al mondo i tuoi timori finché non si trasformano in coraggio.
Quando pensiamo alla “discografia tears for fears” degli anni ’80, ripeschiamo dal baule dei ricordi una manciata di canzoni che hanno segnato un’epoca: i volti dei due fondatori, – Roland Orzabal e Curt Smith – erano dappertutto, anche se esibivano un’aria tanto seria da sembrare usciti da una seduta di terapia di gruppo. E forse è proprio così: l’intero progetto, in fondo, era un viaggio sonoro attraverso i traumi infantili, le paure inconfessate e le lacrime più recondite. Solo che invece di buttar giù tutto in un quaderno segreto, questi due lo hanno inciso su vinile.
Si vede che hanno colpito nel segno, dato che poi hanno venduto milioni di dischi e oversaturando l’etere con brani che sarebbero diventati l’emblema di un certo spleen in salsa pop.
Dove sta il trucco? Forse in quei ritornelli creati per incollarsi al cervello, forse in quelle metriche tese come corde di violino o forse, più semplicemente, nell’onestà brutale di chi mette in mostra le proprie fragilità. Ah, poi ti devo anche raccontare di un curioso incontro notturno avvenuto dietro un vicolo alquanto losco, dove l’antieroe di turno mi ha chiesto lumi sulla band, facendomi domande a cui ho risposto con sobrio entusiasmo (e un po’ di compassione).
THE HURTING (1983)

L’esordio e il contesto storico
Nel marzo del 1983, i Tears for Fears si presentano al grande pubblico con “The Hurting”, primo album ufficiale del duo sotto questo nome.
Uscito per Mercury Records, “The Hurting” fa subito intuire le coordinate della band: riflessioni profonde, quasi filosofiche, in un guscio di sintetizzatori e melodie pop.
L’Inghilterra dell’epoca è in pieno fermento “synth-pop”; gruppi come Depeche Mode, Ultravox e Human League stavano già scalando le classifiche. I Tears for Fears si distinguono per l’intensità emotiva che avvolge il disco, quasi fosse un concept album incentrato sul tema dei traumi e delle ferite dell’infanzia.
Roland Orzabal e Curt Smith, entrambi provenienti da situazioni familiari non sempre semplici, trovano in queste canzoni un canale per rielaborare le proprie ansie e tensioni personali.
Per quanto la “primal therapy” di Arthur Janov non venga mai citata direttamente nei testi, l’influsso di quelle idee terapeutiche è più che evidente: i brani di “The Hurting” sembrano spingere l’ascoltatore a prendere coscienza delle proprie sofferenze, a riconoscere quelle “urla primordiali” che ciascuno di noi racchiude, più o meno consapevolmente.
Analisi dei brani-chiave
Il disco si apre con la title track “The Hurting”, che stabilisce subito il tono malinconico e introspettivo dell’album.
Non a caso, uno dei singoli estratti, “Mad World”, è diventato negli anni una sorta di manifesto: un brano che, pur con una linea di basso e dei sintetizzatori molto anni ’80, si tinge di tinte cupe, preannunciando un pessimismo cosmico che non lascia facilmente scampo.
È interessante notare come “Mad World” sia stato riscoperto con grande successo alla fine degli anni ’90 e nei primi anni 2000, grazie a cover (come quella di Gary Jules per la colonna sonora di Donnie Darko) che hanno fatto da cassa di risonanza per le nuove generazioni.
Altri brani come “Pale Shelter” e “Change” mostrano la versatilità di Orzabal e Smith nel confezionare melodie ariose, quasi delicate, pur non rinunciando a testi affilati e cupi. Il contrasto fra la leggerezza pop e la profondità dei contenuti psicologici è una delle chiavi di lettura per comprendere il fascino di “The Hurting”: un album che, nel suo complesso, riflette sul passato, sui dolorosi traumi infantili, e sulla necessità di affrontarli per trovare una direzione nel presente.
Accoglienza di pubblico e critica
Per essere un disco d’esordio, “The Hurting” ottiene un buon successo di critica e pubblico, specialmente in Inghilterra, dove raggiunge i vertici della classifica britannica.
I fan si mostrano ricettivi nei confronti di questo mix di introspezione e pulsione pop, segno che la synth-pop non è soltanto uno stile musicale, ma può diventare vettore di riflessioni profonde. In quell’epoca di grande libertà espressiva, i Tears for Fears dimostrano che la sofferenza, se messa in musica con gusto e autenticità, può catturare le masse.
SONGS FROM THE BIG CHAIR (1985)

L’anno dell’esplosione mondiale
Se “The Hurting” aveva posto i Tears for Fears sulla mappa, è con “Songs from the Big Chair” (1985, sempre Mercury Records) che la band conquista la scena internazionale. L’album si apre verso sonorità più radiofoniche, pur mantenendo intatta quella vena di consapevolezza psico-emotiva già esplorata nel primo disco.
I sintetizzatori si fanno più imponenti, la produzione più patinata e i ritornelli più efficaci. Gli anni ’80, del resto, erano anche gli anni della spettacolarizzazione e dell’edonismo musicale: basti pensare a come MTV, lanciata nel 1981, fosse diventata un canale fondamentale per il successo di un gruppo.
“Shout” e “Everybody Wants to Rule the World”
“Songs from the Big Chair” contiene due dei brani più iconici della band. Innanzitutto, “Shout”: un autentico inno alla liberazione. Qui ritroviamo in modo manifesto l’influenza della “primal therapy”: si invita l’ascoltatore a gridare le proprie paure, i propri traumi e le frustrazioni, quasi fossero un passaggio obbligato verso la catarsi.
Questo pezzo, con il suo ritornello potente e reiterato, diventa un successo globale e un segno distintivo degli anni ’80: non c’è discoteca o radio del periodo che non lo trasmetta regolarmente.
Accanto a “Shout”, la band piazza “Everybody Wants to Rule the World”, un brano decisamente più morbido e melodico, ma altrettanto incisivo.
Se “Shout” era il grido di rabbia, “Everybody Wants to Rule the World” appare come la riflessione disincantata sulla fame di potere, sull’ambizione smodata e sulla competizione che caratterizza la società.
Questo contrasto tra la potenza aggressiva del primo singolo e la dolcezza malinconica del secondo dimostra la capacità dei Tears for Fears di muoversi fra registri emotivi diversi, senza mai perdere di vista la coerenza dell’insieme.
Altri brani e peculiarità
Meno noti al grande pubblico, ma altrettanto significativi, sono brani come “Head over Heels” e “The Working Hour”.
Nel primo, i due musicisti mostrano la loro attitudine per la costruzione di ritornelli che si stampano in testa fin dal primo ascolto, mentre “The Working Hour” esplora temi di alienazione e oppressione, sovrapponendo fiati e sintetizzatori in un impasto sonoro di grande suggestione.
L’album prende il titolo da un documentario, “Sybil”, che racconta la storia di una donna con personalità multiple, e la “Big Chair” (la grande sedia) diventa metafora della sicurezza, del conforto che chiunque cerchi di trovare in un mondo caotico.
In un certo senso, “Songs from the Big Chair” è un invito a rifugiarsi nella musica per affrontare il caos del mondo.
Successo e riconoscimenti
Dal punto di vista commerciale, questo disco è un trionfo: scala le classifiche statunitensi e britanniche, e proietta i Tears for Fears nelle vette del panorama pop internazionale.
Le tournée dell’85 e dell’86 sono affollatissime; MTV manda in rotazione continua i videoclip delle canzoni principali, rendendo il volto serio e riflessivo di Roland Orzabal e Curt Smith familiare a milioni di adolescenti in tutto il mondo.
Nell’ambiente musicale, i critici notano come i Tears for Fears sappiano coniugare la complessità tematica con una produzione orecchiabile: un equilibrio non sempre facile da raggiungere, ma che qui si mostra in tutta la sua forza.
THE SEEDS OF LOVE (1989)

Un disco di fine decennio
Passiamo ora al terzo album pubblicato negli anni ’80: “The Seeds of Love” (1989, Fontana Records). Siamo già alla fine del decennio, e il panorama musicale sta iniziando a evolvere verso nuove direzioni (il grunge, il britpop, la house music e altro ancora), ma i Tears for Fears non hanno perso la loro capacità di sorprendere.
Dopo il grande successo di “Songs from the Big Chair”, era lecito aspettarsi un disco che ricalcasse in modo pedissequo la formula vincente. Invece, Orzabal e Smith optano per un approccio più sperimentale, con un uso ridotto del “synth-pop” (rispetto ai dischi precedenti) e una maggiore presenza di elementi soul e jazz, complici i numerosi session musician coinvolti.
“Sowing the Seeds of Love” e “Woman in Chains”
Il brano che dà il titolo all’album, “Sowing the Seeds of Love”, è un tributo palese ai Beatles (in particolare alla fase psichedelica di Sgt. Pepper). L’arrangiamento stratificato, con fiati e cori, e la melodia orecchiabile ma elaborata, segnano un allontanamento dal minimalismo elettronico che aveva caratterizzato i primi due lavori.
La band vuole dimostrare di saper andare oltre i confini del pop sintetico, guardando alla tradizione del rock inglese dei decenni precedenti.
Altrettanto significativa è “Woman in Chains”, canzone in cui compare la voce potente di Oleta Adams. Il brano affronta temi di emancipazione e sofferenza femminile, intrecciando la voce di Oleta con quella di Curt Smith e i falsetti di Roland Orzabal in modo quasi cinematografico.
Il risultato è un pezzo che si potrebbe definire “adult pop”, lontano dagli eccessi patinati di metà anni ’80.
Ricezione critica e influenza
“The Seeds of Love” ottiene un buon riscontro di vendite, ma non eguaglia l’enorme successo planetario del disco precedente, complice forse il cambio di sonorità e l’assenza di un singolo-macchina-da-guerra come “Shout” o “Everybody Wants to Rule the World”. A distanza di decenni, molti fan considerano questo album come il più maturo e complesso della prima fase della band.
La critica riconosce ai Tears for Fears il merito di aver voluto sperimentare, dimostrando che la loro poetica non si esauriva nel pop sintetico, ma era pronta ad abbracciare un orizzonte più ampio di riferimenti musicali.
DISCOGRAFIA DEI TEARS FOR FEARS
Ecco una visione d’insieme della discografia dei Tears for Fears, suddivisa in due grandi insiemi: quella prima e durante gli anni ’80 (con un piccolo cenno preliminare) e quella post-anni ’80.
Discografia durante gli anni ’80
- Graduate – “Acting My Age” (1980, Precision Records)
Prima di chiamarsi Tears for Fears, Roland Orzabal e Curt Smith militavano nei Graduate, band che sfornò quest’album degli 1980. Sebbene non faccia parte della discografia ufficiale dei Tears for Fears, è interessante citarlo poiché rappresenta l’esordio discografico dei due musicisti, allora giovanissimi. - Tears for Fears – “The Hurting” (1983, Mercury Records)
L’esordio vero e proprio del duo sotto il nome Tears for Fears. Album manifesto delle inquietudini e dei “traumi infantili”, resi in salsa synth-pop. - Tears for Fears – “Songs from the Big Chair” (1985, Mercury Records)
Il grandissimo successo internazionale. Contiene singoli che hanno dominato le classifiche e fatto conoscere il gruppo al mondo intero. - Tears for Fears – “The Seeds of Love” (1989, Fontana Records)
L’evoluzione “beatlesiana” e sperimentale della band. Ultimo disco pubblicato negli anni ’80, poco prima dei cambiamenti radicali che caratterizzeranno i ’90.
Discografia post-anni ’80
- Tears for Fears – “Elemental” (1993, Mercury Records)
Inciso quasi interamente da Roland Orzabal dopo l’uscita di Curt Smith dal gruppo. Segna un cambio di sonorità, più vicino al pop-rock tradizionale rispetto al synth-pop degli esordi. - Tears for Fears – “Raoul and the Kings of Spain” (1995, Epic Records)
Continuazione del percorso solista di Orzabal sotto il nome Tears for Fears. Il titolo omaggia le sue radici ispaniche (Raoul avrebbe dovuto essere il suo nome di battesimo). - Tears for Fears – “Everybody Loves a Happy Ending” (2004, New Door Records)
Ritorno di Curt Smith accanto a Orzabal. Un disco che cerca di riprendere lo spirito originario del duo, pur aggiornandolo ai primi anni 2000. - Tears for Fears – “The Tipping Point” (2022, Concord Records)
L’album più recente, pubblicato dopo una lunga pausa, che dimostra quanto la band abbia ancora molto da dire, anche a distanza di decenni dagli anni d’oro.
NON C’È PIÙ NULLA DA ASCOLTARE! CHE VOLETE ANCORA?

Ora veniamo al curioso episodio a cui facevo riferimento all’inizio dell’articolo e che mi è capitato un paio di notti fa.
Stavo rincasando dopo un concerto abbastanza spinto, passando per un vicolo losco in cui non avrei messo piede neanche per scommessa, quando mi sono imbattuto nientemeno che in The Punisher: in completo di pelle, sguardo torvo e bottiglia mezza vuota in mano. Era su di giri e, a quanto pare, assetato di conoscenza musicale.
The Punisher (barcollando lievemente): Ehi… tu… Sì, proprio tu, con quella faccia da enciclopedia ambulante…
Io (cercando di sorridere senza spaventarlo): Ehm, buonasera. Tutto bene?
The Punisher: Lascialo dire a me se va tutto bene! Ma senti… ti vorrei chieder… sai qualcosa dei “Tears for Beers”? No… cioè… come diavolo si chiamano… Tears for Bears, giusto?
Io (alzando un sopracciglio): A fare i pignolini si chiamano Tears for Fears, ma ora voglio capire perché mai pensavi si chiamassero come un romanzo di serie bi di Foster Wallace?
The Punisher: Perché avevo voglia di roba tosta, e “Beers” suonava più da festa… Comunque… che diavolo fanno questi due tipi un po’ sfig… ehm, malinconici?
Da lì è partita la raffica di domande. Ho cercato di accontentarlo come potevo. Riporto i passaggi salienti di quella mini-intervista surreale:
Cosa vuol dire in italiano Tears for Fears?
The Punisher: Questo nome… nella tua stupida lingua italiana come si traduce?
Io: Letteralmente, è Lacrime di Paura. Un omaggio alla primal therapy di Arthur Janov, quella delle urla primordiali: sai, si dice che gridare o piangere le tue paure ti aiuti a liberartene, quella roba lì a metà strada tra Shinji e John Lennon in fase UFO e Yoko Ono…
The Punisher (incredulo): Lacrime di Paura… Quindi avrei potuto chiamarli “Tears for Beers” solo se avessero deciso di ubriacarsi?
Io (trattenendo una risata): Già, ma questi preferivano la musica a qualche pinta. Un peccato, vero?
Quanti album hanno fatto i Tears for Fears?
The Punisher (bevendo un sorso dalla bottiglia): Va bene, passiamo ai numeri. Quanti dischi hanno sfornato questi due?
Io: A nome Tears for Fears, i lavori in studio ufficiali sono sette:
- The Hurting (1983)
- Songs from the Big Chair (1985)
- The Seeds of Love (1989)
- Elemental (1993)
- Raoul and the Kings of Spain (1995)
- Everybody Loves a Happy Ending (2004)
- The Tipping Point (2022)
The Punisher: Sette, eh? Mica pochi. Speriamo ci sia qualcosa di divertente in mezzo alle loro paranoie!
Quanti anni ha il cantante dei Tears for Fears?
The Punisher (poggiandosi contro un muro scrostato): E ‘sto cantante? O meglio, sono in due, mi pare, a forse ci vedo doppio per la birra. Quanti anni hanno?
Io: Entrambi nati nel 1961. Se prendiamo come riferimento l’anno 2025, hanno o stanno per compiere 64 anni.
The Punisher (sgranando gli occhi): Quindi fanno ancora concerti? Diavolo, allora non hanno bevuto poi così tanto, sono più tosti di quanto pensassi.
Io: Oh sì, se capita un loro tour, facci un giro. Magari ti trovi una birra in un baretto vicino al botteghino e canti “Shout” mentre sgozzi qualcuno…
A quel punto, The Punisher ha fatto un cenno d’assenso (o di resa, non saprei), e se n’è andato ondeggiando, lasciandomi con la strana sensazione che, se persino un tipo del genere può incuriosirsi, allora non c’è limite alla forza d’attrazione che i Tears for Fears sanno esercitare.
Fa male. Quanto?
Riflessioni finali sugli anni ’80 e l’eredità della band

Dopo aver analizzato i tre album dei Tears for Fears che hanno costellato gli anni ’80 – “The Hurting”, “Songs from the Big Chair” e “The Seeds of Love” – e avervi fornito uno sguardo complessivo sulla discografia, possiamo trarre alcune considerazioni conclusive. Il decennio che va dal 1980 al 1989 fu un periodo di grande mutamento culturale: l’esplosione dei videoclip, la centralità dei sintetizzatori, l’avvento dell’estetica coloratissima, l’egemonia di MTV.
Eppure, i Tears for Fears seppero dare a questo quadro una dimensione psicologica che andava oltre la semplice moda: le loro canzoni parlavano di traumi infantili, ricerche interiori, spazi di libertà emozionale.
Il concetto di urla primordiali era un riferimento continuo a un percorso di guarigione che passa attraverso l’emersione del dolore e la sua successiva elaborazione.
Brani come “Mad World”, “Shout”, “Everybody Wants to Rule the World” e “Sowing the Seeds of Love” hanno contribuito a plasmare il DNA collettivo degli anni ’80, realizzando vere e proprie colonne sonore della memoria di chi ha vissuto quel periodo. O l’ha soltanto immaginao.
Al contempo, i Tears for Tears hanno lasciato in eredità alle generazioni future un repertorio ancora attuale, perché certe inquietudini non passano mai di moda e il potere catartico della musica si conferma universale.
Sguardo sul futuro e sull’importanza della discografia Anni ’80

Il fascino dell’era d’oro dei Tears for Fears non si è mai spento. A testimoniarlo sono gli innumerevoli omaggi, le cover, le citazioni e i sampling che ancora circolano nel panorama pop-rock contemporaneo. Gli anni ’80, per questa band, rappresentano la fase più iconica, quella in cui “Shout” diventa un grido generazionale, in cui “Everybody Wants to Rule the World” racconta in modo profetico la competizione globale per il potere, in cui “Woman in Chains” pone l’attenzione su tematiche di libertà ed emancipazione.
Oggi, con la riscoperta di sonorità vintage, la discografia tears for fears suscita nuovo interesse anche tra i più giovani, curiosi di capire da dove derivino molte delle influenze della pop music contemporanea.
Del resto, la rielaborazione delle estetiche anni ’80 non riguarda più soltanto le note musicali, ma si estende al cinema, alla moda e alle serie TV di successo.
In un simile panorama, i Tears for Fears si stagliano come un esempio di pop di primissimo piano, in cui l’intrattenimento si fonde con la riflessione psicologica e sociale.
Lacrmie di paura come patrimonio dell’umidità

In conclusione, la discografia dei Tears for Fears degli anni ’80 è un patrimonio da (ri)scoprire con attenzione.
“The Hurting” ci introduce ai loro mondi interiori, costellati di introspezione e di traumi infantili; “Songs from the Big Chair” cavalca l’onda del successo globale con inni che incoraggiano all’espressione e alla liberazione emotiva; “The Seeds of Love” getta i semi di una sperimentazione più ampia, testimoniando la volontà di non fossilizzarsi in un singolo stile.
In ogni tappa, i due autori – Roland Orzabal e Curt Smith – coltivano un dialogo costante fra musica e psicologia, fra fragilità e affermazione di sé, fra l’urlo che scava nel dolore e la ricerca di un amore o di un’armonia universale.
C’è un certo fascino nel voler ballare al ritmo delle proprie paure ed esorcizzare quei timori attraverso il suono, rivelando un frammento di verità su noi stessi e sulla condizione umana.
Che siate fan di lunga data, collezionisti incalliti o ascoltatori curiosi di avvicinarvi a queste sonorità, non perdete l’occasione di immergervi nei brani dei Tears for Fears e – in particolare – nel loro lavoro degli anni ’80.
Quel decennio risuona ancora oggi con immutata forza, dimostrazione di come la combinazione fra melodia, introspezione e tecnologia analogico-digitale possa creare classici senza tempo.