C’è stato un tempo in cui salire sul palco di Sanremo era come entrare in chiesa con un tamburo in spalla e la sigaretta accesa. Un tempo in cui i cantautori ci andavano malvolentieri, e quando lo facevano, come Vasco Rossi nel 1983, ci andavano per smontarlo. Per trattare il Festival non come un punto d’arrivo, ma come un’occasione di disturbo necessario, una bomba a orologeria da innescare tra le canzoni d’amore perfettamente pettinate e i vestiti stirati a vapore da Mamma RAI.
Questa è la storia di come “Vita spericolata” cambiò tutto. O, come direbbe Vasco: la canzone non cambiò me, fui io a cambiare la vita.
Una frase che suona come una bestemmia, ma anche come un fottuto manifesto.
“Poi fai quello che ti pare”: Ravera, il circo e l’invito alla disobbedienza
Nel 1982 Vasco aveva già fatto il matto a Sanremo. Era andato con quella Vado al massimo sparata a caso su una platea di signore in pelliccia e baffoni RaiUno.
L’aveva fatto per provocare. Perché a quei tempi, se volevi uscire dall’Emilia-Romagna e arrivare in tutta Italia, dovevi infilarti nei salotti. Anche se poi ci sputavi sul tappeto.
Quando Ravera lo richiama l’anno dopo, Vasco risponde con la sincerità di uno che ha appena vomitato sull’altare:
“Non è che posso tornare a fare il matto, poi mi tocca lavorare in un circo.”
Ecco, questo è il punto. Vasco non voleva diventare una maschera, voleva essere un urlo. Uno solo. Ma potente.
Quando arriva la canzone giusta, arriva tutto
Settembre 1982. Una musica di Tullio Ferro inizia a girare in testa a Vasco come uno di quei pensieri che non mollano.
Un riff in cui mettere dentro tutto quello che aveva sempre voluto dire e non aveva mai avuto il coraggio di scrivere.
“Voglio una vita… maleducata.”
Come se fosse un’esplosione di sincerità buttata in faccia a Riccardo Fogli e alla giuria. Vasco scrive il testo cercando le parole come un chirurgo cerca la vena giusta: spericolata, che se ne frega, a faccia di tutti.
Non è una canzone: è una dichiarazione di guerra.
Una guerra contro il perbenismo di un format musicale televisivo, certo. Ma anche una guerra contro l’idea che il successo debba somigliare per forza a una cravatta.
Sanremo 1983: l’ultima volta sul palco dei benpensanti
Nel 1983 Sanremo è ancora il rifugio dorato degli artisti da sabato sera. Albano e Romina, Riccardo Fogli che vince con un’ode al cuore spezzato.
Vasco ci arriva con una canzone che sembra un sabotaggio: “Vita spericolata” è l’esatto contrario di quello che la gente si aspetta da quella platea.
Ma è l’unico modo per uscire dall’Emilia-Romagna. L’unico modo per parlare a tutta Italia, anche se la sua etichetta discografica è di nicchia, anche se nessuno ti prende sul serio se sei solo un rocker con un dialetto e un pugno di verità in tasca.
Sanremo non era il punto d’arrivo. Era il megafono per urlare lontano.
“Ci andai perché sapevo che era l’unico modo che avevo per avere una platea nazionale.”
E una volta detto tutto, Vasco se ne va. Non tornerà più indietro.
“Non è la vita a cambiarmi, sono io che cambio la vita“
“Vita spericolata” è il tipo di canzone che può chiudere una carriera.
È talmente perfetta, talmente densa, talmente fuori dal tempo, che chiunque altro ci avrebbe fatto sopra vent’anni di repliche e raccolte.
Ma Vasco no. Lui la canta, la sbatte lì sul palco, tra gli orchestrali con lo smoking e le signore col ventaglio, e poi continua la sua corsa.
Senza voltarsi. Senza rientrare nei ranghi.
È il paradosso dell’artista vero: quando trova la sua canzone perfetta, non si ferma. Perché è troppo occupato a inseguire la prossima scintilla, la prossima botta di verità, il prossimo “vaffanculo” da mettere in metrica.
Perché “Vita Spericolata” è ancora rilevante
Nel 2025, riascoltare “Vita spericolata” fa lo stesso effetto di una polaroid trovata tra le macerie: ti ricorda che c’è stato un tempo in cui dire la verità era pericoloso, ma possibile.
Un tempo in cui i Festival servivano anche a disturbare, e un cantautore poteva salire sul palco non per piacere, ma per lasciare un segno.
Un tempo in cui essere maleducati non significava essere ignoranti, ma liberi.
Se oggi ci chiediamo dove siano finiti i matti di quel calibro, forse la risposta sta proprio lì.
In una strofa del 1983, che non ha mai smesso di bruciare