Per settimane quel maledetto 16 luglio lampeggiava nella mia testa come il neon difettoso di un bar di periferia. Wet Leg a Cesena. Alla Rocca Malatestiana, per l’amor del cielo!
Finalmente qualcosa che facesse sobbalzare questa città dal suo torpore di provincia, un concerto che avrei potuto raccontare ai miei nipoti come “quella volta che il brit-pop conquistò le mura medievali”.
Me lo immaginavo: il prato gremito, i muri secolari che sudano umidità e storie, le torri che guardano la folla come vecchi giganti benevoli, e quell’eco di chitarre che si infila tra i merli come un gatto randagio in cerca di risse. Sarebbe stato il concerto dell’anno, forse del decennio, e non sto esagerando (o sì, ma chi se ne frega, io vivo per esagerare).
E invece… niente. Zero. Vuoto cosmico. Annullato. Il giorno stesso.
Problemi “logistici”, dicono. Sapete cosa sono i problemi logistici? È come quando ti lasci con qualcuno e dici “non è colpa tua, sono io”. Una scusa elegante per dire che il mondo non si piega ai tuoi desideri, e a volte ti sputa pure in faccia.
La notizia è piombata sui social come un piccione sul parabrezza: sporca, improvvisa e impossibile da ignorare. “Le Wet Leg non suoneranno alla Rocca Malatestiana stasera.” Punto. Fine. Niente più sogni di ballare con gli sconosciuti sotto il cielo di luglio. Niente più birre calde bevute in coda al bagno chimico. Niente.
E così siamo rimasti tutti lì, io e la piccola tribù di provinciali con il cuore indie, a fissare i cancelli chiusi della Rocca come se prima o poi si aprissero da soli. Qualcuno postava foto con espressioni tragiche, altri sfogavano sarcasmo come se fosse gas tossico: meme, battute amare come la Fanta lasciata al sole e un’unica domanda che rimbalzava tra i commenti — “Ma perché proprio qui? Perché proprio ora?”.
E forse, mentre li guardavo, ho capito: non era solo un concerto mancato. Era un promemoria brutale che anche la bellezza, quando sembra a portata di mano, può evaporare senza preavviso. Ma ehi, dalle macerie si tirano fuori le storie migliori.
Wet Leg: la band e l’ispirazione ritrovata
Chi sono le Wet Leg? Se per caso non le avete ancora incrociate, sono un duo indie-rock britannico originario dell’Isola di Wight, formato da Rhian Teasdale e Hester Chambers.
Nel 2022 hanno pubblicato l’omonimo album di debutto che nel giro di poche settimane ha conquistato classifiche e critica grazie a un sound fresco e trascinante.
Il disco è stato co-prodotto da Dan Carey, un nome leggendario dell’indie UK che ha messo mano a dischi di band come Fontaines D.C., Black Midi e appunto le Wet Leg.
Per dare un’idea del fenomeno: nel 2023 le Wet Leg si sono portate a casa ben due Brit Awards (miglior gruppo e miglior artista emergente) e due Grammy Awards negli Stati Uniti, roba che catapulta una giovane band nell’Olimpo pop in tempo record.
Non male per due ragazze partite quasi per gioco con una canzone dedicata a un chaise longue!
La loro prima hit “Chaise Longue” e il suo ritornello nonsense e contagioso (“on the chaise longue, all day long”) sono diventati un tormentone inarrestabile in ambito indie.
A livello personale, confesso che le Wet Leg sono state la scintilla che mi ha rimesso in moto dopo un lungo periodo di pausa creativa.
Ho scoperto il loro brano “Chaise Longue” quasi per caso online e mi ha travolto quel mix di ironia scanzonata e chitarre taglienti: un’attitudine che mi ha ricordato perché mi ero innamorato della musica indie-pop tanti anni fa.
Quelle ragazze suonavano spensierate ma con melodie solidissime e mi è venuta una voglia matta di rimettermi a scrivere canzoni.
Certo, loro possono contare su produttori del calibro di Dan Carey in studio, mentre io ho dovuto arrangiarmi da solo, ma pazienza: a volte la passione supplisce alla tecnologia.
Brit-pop anni ’80 e nuove canzoni
Musicalmente, entrambe le tracce affondano le radici nel mio amore per il brit-pop e l’alt-rock degli anni ’80.
Nella mia testa, durante la scrittura, girava una playlist immaginaria che andava dai The Cure ai The Smiths, passando persino per i sovietici Kino e arrivando ai Dire Straits.
Echi di quelle sonorità si sono inevitabilmente riversati nei nuovi pezzi: linee di basso cupe alla Cure, chitarre jangly alla Smiths, atmosfere sognanti che a tratti strizzano l’occhio ai Dire Straits più melodici.
Il risultato sono due brani molto diversi tra loro per tema e atmosfera, ma uniti da questa comune anima brit-pop rivisitata alla mia maniera.
Il primo pezzo non l’ho pensato come una canzone, ma come un cazzotto in faccia. È il rumore sordo che senti quando la realtà decide che oggi tocca a te finire sotto le ruote.
Niente nomi, niente date, niente geografia da telegiornale: è la guerra come entità mutante, un blob che ingloba tutto — trincee fangose, deserti polverosi, città che non riconosci più perché ora sono crateri.
È la puzza di cordite, la luce al neon della morte che arriva da un drone invisibile, e quella sensazione viscida che la tua vita non valga più del gettone di un flipper rotto.
Sì, ci ho messo dentro i Cure più neri, quelli che ti fanno venire voglia di bere gin alle tre del pomeriggio, e i Kino, che sapevano trasformare una malinconia collettiva in inni da stadio.
Ci ho buttato pure un po’ di “Brothers in Arms” dei Dire Straits, ma come se Mark Knopfler fosse stato rinchiuso in un bunker per mesi, a registrare chitarre mentre fuori cadevano bombe.
È un pezzo che non consola: ti prende per il bavero, ti guarda negli occhi e ti sussurra “non illuderti, qui fuori non è mai cambiato un cazzo”.
Poi c’è l’altro. Che è come svegliarsi dopo un incubo e scoprire che il mondo, per una volta, ha deciso di non sputarti in faccia.
È luce che filtra dalle persiane, è odore di pane e gelsomini, è il rumore di un jukebox arrugginito che suona una ballata romantica in un bar di paese.
Ho immaginato oratori pieni di ragazzini che urlano e ridono, carrozze che scivolano verso un fiume pigro, romanzi letti ad alta voce mentre il sole cala dietro campanili storti.
Non è storia vera. È la bugia più bella che potessi raccontarmi. Una cartolina da un’epoca che non ho mai vissuto, ma che mi ostino a difendere come se fosse casa mia.
Musicalmente, è il lato gentile dei Cure, il sorriso segreto degli Smiths, una chitarra che si scioglie in un assolo vintage come se fosse il 1978 e non ci fossero smartphone, solo biciclette appoggiate ai muri e gente che si saluta per strada.
Se il primo pezzo è una ferita aperta, questo è il cerotto che non ferma il sangue ma ti ricorda che, cavolo, vale ancora la pena alzarsi dal letto.
Oltre la delusione, verso il finale
Ora che queste due canzoni sono nate, mi rendo conto che perfino la delusione del concerto mancato è servita a qualcosa.
Le Wet Leg a Cesena non le abbiamo viste suonare, è vero, ma in qualche modo la loro musica qui ha risuonato lo stesso, trasformandosi in nuova musica.
Il mio album in lavorazione ha guadagnato due pezzi importanti che chiudono il cerchio del racconto: dal buio della guerra alla luce dei sogni perduti, con in mezzo tutta la vita e le influenze che mi porto dietro.
In fondo, è un po’ come se quel concerto alla Rocca Malatestiana si fosse tenuto dentro di me, scatenando un’onda creativa.
La prossima volta che le Wet Leg sbarcheranno a Cesena – perché ci piace pensare che succederà, prima o poi – saremo di nuovo lì ad aspettarle, magari cantando già qualche nuovo ritornello tutti insieme sotto il palco.
Se c’è una cosa che questa storia mi ha ricordato è che a volte le ispirazioni arrivano dai posti più imprevedibili: persino da un concerto mai avvenuto.
La musica, alla fine, trova sempre la sua strada per suonare, anche quando il palco rimane vuoto.