Riflessioni su infanzia e cultura digitale
L’educazione “schermata”
C’era un tempo in cui i bambini venivano sgridati per aver letto troppo. Troppo, s’intende, sotto le coperte, con una torcia a pile mezza scarica e l’ansia di farsi scoprire.
Poi arrivò la televisione e la luce si fece legittima: al centro del salotto, con tanto di mobiletto girevole e centrino.
A quel punto, i bambini smisero di leggere sotto le coperte. Iniziarono a guardare i cartoni, seduti, imbambolati, mentre il telecomando diventava un prolungamento della volontà paterna.
Nel 1990, lo Stato italiano, preoccupato per le sorti dell’infanzia mediata, approvò la legge Mammì. Tra le sue disposizioni, una in particolare colpiva l’immaginazione: vietata la pubblicità durante i cartoni animati.
Una misura che oggi può far sorridere, ma che all’epoca sembrava necessaria per difendere i più piccoli dall’aggressività commerciale delle prime reti private.
Oggi, trentacinque anni dopo, ci ritroviamo a discutere non più dello spot tra un episodio dei Puffi e uno di Creamy, ma di algoritmi personalizzati, contenuti a scorrimento infinito, e dipendenza da dopamina digitale. In Francia, un’équipe di medici e psicologi ha suggerito al governo Macron una tabella d’uso dello schermo più rigida di quella alimentare: niente schermi prima dei tre anni, niente telefono prima degli undici, niente social prima dei quindici.
E noi italiani? Restiamo incerti. Domandiamo se sia giusto. Ma il vero problema è che non sappiamo più come si fa a educare.
Capitolo I – Quando lo Stato difendeva i bambini dall’ipnosi
Nel cuore degli anni Ottanta, la televisione era diventata il vero orizzonte simbolico dei bambini italiani. La RAI, con le sue certezze pedagogiche, conviveva con le nuove reti commerciali che offrivano cartoni giapponesi a ogni ora del giorno, spesso infilando tra un duello spaziale e l’altro un invito a comprare biscotti, giocattoli o zainetti.
La legge Mammì, entrata in vigore nel 1990, fu il tentativo di mettere ordine in questa giungla.
Vietare la pubblicità durante i programmi per bambini significava affermare un principio: l’infanzia non è un mercato. O, quantomeno, non lo è del tutto.
In un Paese in cui si fumava nei corridoi delle scuole e si lasciavano i bambini ad aspettare in macchina fuori dai bar, quell’intervento legislativo appariva quasi illuminato. Riconosceva che la pubblicità non è neutra, e che l’immaginario infantile va protetto non solo dalle minacce concrete, ma anche da quelle semiotiche.
Certo, nessuna legge è perfetta. Ma quel gesto, in sé, affermava una cosa che oggi sembra scomparsa: che educare significa anche sottrarre, limitare, scegliere cosa non mostrare.
Capitolo II – Quando ci stufammo e delegammo tutto allo schermo

Nel 2025, il panorama è radicalmente cambiato. Non ci sono più orari di programmazione, non esistono più “fasce protette” e nemmeno la televisione ha il potere che aveva un tempo. Il bambino moderno non aspetta Heidi alle 16:30: streamma, swipa, skippa.
La cultura dello schermo è ormai totalizzante. Il problema non è più ciò che si guarda, ma il fatto che si guarda sempre. L’esposizione è costante, ubiqua, mobile.
Il dispositivo – che sia tablet, telefono, televisore o console – non è più un medium: è un ambiente.
Da qui l’allarme lanciato in Francia. Il rapporto della neurologa Mouton e dello psichiatra Benyamina propone una vera e propria dieta digitale per minori:
- Prima dei 3 anni: schermi vietati;
- Dai 3 ai 6: solo in presenza di un adulto;
- Fino agli 11: niente giochi connessi;
- Tra gli 11 e i 13: sì al telefono, ma senza Internet;
- Tra i 13 e i 15: smartphone sotto sorveglianza;
- Social network ammessi solo dopo i 15, e solo etici (ammesso che esistano).
Queste indicazioni non hanno ancora forza di legge, ma esprimono un’urgenza: i bambini non sono equipaggiati cognitivamente per fronteggiare l’architettura persuasiva dei contenuti digitali. Il loro cervello non è ancora pronto. Il sistema dopaminico sì.
E mentre ci indigniamo per i like dei tredicenni, dimentichiamo che siamo stati noi a infilare i telefoni nei passeggini. Per quieto vivere. Per stanchezza. Per fretta.
Capitolo III – Il grande disimpegno: genitori, istituzioni e l’illusione del controllo

C’è un paradosso evidente: mai come oggi abbiamo avuto accesso a studi, dati, ricerche, linee guida. E mai come oggi siamo rimasti immobili.
Le piattaforme si arricchiscono sulla fragilità dell’attenzione e gli adulti – che dovrebbero vigilare – si arrendono, con lo sguardo basso sul proprio schermo.
La responsabilità non è solo individuale. Certo, i genitori sono in prima linea, ma anche le istituzioni faticano a regolare un ecosistema che cambia più velocemente delle leggi.
Le norme europee, come il Digital Services Act, provano a introdurre vincoli, ma la realtà quotidiana si gioca altrove: nella cucina, nel salotto, nei tragitti in macchina verso la scuola.
Come per il tabacco, ci sarebbe bisogno di un’azione culturale, non solo normativa. Un lavoro di alfabetizzazione digitale, non per i bambini, ma per gli adulti. Perché chi non conosce i meccanismi dell’algoritmo, difficilmente saprà riconoscerne le insidie. Se è vero – com’è vero – che abbiamo abdicato all’educazione dei figli in favore dei dispositivi, allora il problema non è tecnologico. È antropologico.
Il diritto alla noia, il dovere dell’esempio
Educare significa, innanzitutto, dare l’esempio. E oggi l’esempio che diamo è una figura ricurva sul telefono, che spegne il mondo intorno per inseguire notifiche.
Nel 1990 si vietò la pubblicità nei cartoni animati. Era un piccolo gesto, ma affermava un principio: qualcosa è più importante del mercato. Oggi, il gesto che serve è più difficile, perché non basta scrivere una legge. Bisogna spegnere il telefono, ascoltare, sopportare il silenzio, accettare la noia.
Perché non esiste educazione senza presenza e non esiste infanzia che possa crescere bene in assenza di uno sguardo adulto. Uno sguardo che illumina, non retroilluminato.