Pubblicità, scrittura e il coraggio di essere imperfetti
Di cosa sono fatte le parole che ricordiamo
Ci sono frasi che attraversano il tempo e restano. Non perché siano perfette, ma perché erano vive.
Slogan come “Il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è?”. Frasi che nessun algoritmo avrebbe mai scritto: troppo colloquiali, troppo umane, troppo sbagliate.
Negli anni Ottanta, la pubblicità italiana era un laboratorio artigianale di intuizioni geniali. Si parlava alla pancia, al cuore, al subconscio.
Si sapeva che la forza di una frase stava nel suo ritmo, nel suo sapore orale, nella sua capacità di essere ripetuta come una filastrocca.
Oggi il marketing è diventato ingegneria. Le frasi sono costruite per non disturbare. Ogni parola è pesata come un farmaco. E così, paradossalmente, non succede più nulla.
Capitolo I – La pubblicità imperfetta che parlava chiaro
Prendiamo “Anto’, fa caldo.”. Una frase nata in uno spot di Nestea, diventata tormentone, e oggi parte del lessico popolare. Cosa dice, in fondo? Nulla. Ma dice tutto.
Oppure pensiamo alla Barilla: “Dove c’è Barilla, c’è casa.” Non è un claim, è un proverbio. Lo ripeti anche fuori contesto. Ed è lì che vince.
E ancora: “Il caffè è un piacere…” è Lavazza. Non spiega nulla del prodotto, ma spiega tutto del rituale. Chi beve Lavazza non cerca solo caffeina, cerca rassicurazione.
In quegli anni, la scrittura pubblicitaria non puntava alla perfezione. Puntava alla verità emotiva.
Non si scriveva per Google. Si scriveva per chi stava seduto sul divano con un panino, o per chi accendeva la radio mentre guidava verso casa.
Oggi? Le frasi devono convertire. Ma una frase che funziona con l’algoritmo, spesso non funziona con il cuore.
Capitolo II – Scrivere bene, pure troppo: l’era dell’automatismo
La comunicazione contemporanea ha un problema che nessun SEO può risolvere: non commuove. Le frasi sembrano uscite da un centro congressi. Perfette nella forma, ma completamente svuotate nella sostanza.
Proviamo a confrontare:
“Prova la nuova esperienza multisensoriale pensata per il tuo benessere quotidiano.”
E adesso leggiamo:
“Che mondo sarebbe senza Nutella?”
La prima è corretta, equilibrata, persino elegante. Ma non resta. Non lascia niente.
La seconda è un bacio in fronte all’infanzia. È una domanda retorica rivolta al bambino che siamo stati e all’adulto che non ha mai smesso di desiderare il pane con la crema di nocciole.
Scrivere non è un problema di lessico. È una questione di voce. Di tono. Di contesto culturale. Di azzardo.
La scrittura pubblicitaria italiana degli anni ’80 e ’90 aveva un pregio enorme: non cercava di convincere, cercava di farsi ricordare. Oggi, invece, ci si preoccupa troppo di risultare professionali. Ma la professionalità è spesso nemica della memoria.
Capitolo III – Il pubblico non è cambiato: siamo cambiati noi
Il pubblico ha sempre desiderato la stessa cosa: essere visto. Capito. Coinvolto.
Il pubblico vuole ancora storie, imperfezioni, accenti riconoscibili. Vuole che la pubblicità non sembri una pubblicità.
E infatti, quando Lavazza mette Nino Manfredi a parlare con Dio in Paradiso, o quando Mulino Bianco fa cucinare le merendine al Signor Banderas con una gallina parlante, non vende solo un prodotto. Sta raccontando una piccola favola.
Nel frattempo, la comunicazione “moderna” continua a usare parole come sinergia, esperienza immersiva, utente finale. E le persone scrollano via.
Forse perché l’unica cosa che non vogliamo più leggere è ciò che sembra scritto da chi non ha nulla da dire.
Cosa ci resta da scrivere
Scrivere oggi significa scegliere: vogliamo essere impeccabili, o vogliamo essere veri?
Possiamo continuare a produrre frasi neutre, che non urtano, non sorprendono, non sbagliano mai. Oppure possiamo decidere di tornare a parlare come si parla davvero: con esitazioni, con ritmo, con anima.
La pubblicità italiana ci ha insegnato che la memoria ha bisogno di imperfezione. Nessuno ricorda un messaggio perfetto. Ma tutti ricordano “Chi Vespa mangia le mele”, “Basta la parola”, o “Il buono che ti premia.”
Forse il futuro non è tornare agli anni Ottanta. Ma tornare a scrivere come se le parole contassero ancora. Come se una frase potesse, per un istante, far sentire qualcuno meno solo davanti a uno schermo.
📍 Mappa cronologica degli slogan italiani più iconici (1969–2001)
Una linea del tempo sentimentale della pubblicità italiana, con fonti precise
- 1969–1971 – “Chi Vespa mangia le mele” – Piaggio
Libertà, sensualità, giovinezza. Una frase semplice, ma capace di diventare mito. - 1977–1993 – “Più lo mandi giù, più ti tira su!” – Lavazza
Un claim musicale, che entrava nella testa e nel linguaggio comune. - 1980s – “Se non ti lecchi le dita, godi solo a metà” – Fonzies
Da Marco Mignani, una delle frasi più citate di sempre. Tra ironia e desiderio. - 1984 – “Il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è?” – Lavazza
Firmato Manfredi. Una verità quotidiana trasformata in messaggio universale. - 2001 – “Anto’, fa caldo!” – Nestea (Nestlé)
Spot virale con Antonio e Luisa Ranieri. Spontaneo, immediato, eterno.
🧠 5 cose che un claim dovrebbe fare (e oggi non fa più)
- Farsi ricordare
→ Se non resta in testa, è solo rumore. Un buon claim è una melodia breve ma indimenticabile. - Colpire il cuore prima della mente
→ Le emozioni aprono le porte: la razionalità entra solo dopo. - Contenere una verità imperfetta
→ “Chi Vespa mangia le mele” o “Anto’, fa caldo” non spiegano nulla. Ma fanno sentire. - Essere ripetibile nella vita reale
→ Se non lo dicono al bar, non funziona. Deve vivere nelle conversazioni. - Lasciare spazio all’immaginazione
→ I claim migliori non spiegano tutto. Suggeriscono, evocano, fanno sognare.