Ci fu un tempo in cui i videogames erano ancora poco più che rumorosi fantasmi in sala giochi e in cui la parola controller evocava immagini di scienziati pazzi più che di console. Un tempo in cui per giocare a calcio bastava un tappetino verde e una buona dose d’immaginazione.
In quel tempo il Subbuteo era il re incontrastato del salotto. Anzi, lo trasformava: da regno della plastica e dei centrini di pizzo a vero campo da calcio in miniatura completo di giocatori porte falli da espulsione e trionfi da Champions.
Non ho mai posseduto un Subbuteo. Però lo desideravo. Lo guardavo con gli occhi di chi sogna una realtà parallela.
Alcuni sabati pomeriggio mio padre si sbarazzava di me per passare un po’ di tempo tranquillo, portandomi a giocare da mio cugino: uno che aveva un Megatron Transformer grande come Godzilla e una collezione di libri illustrati Disney che gli invidiavo più del Millennium Falcon.
Ma soprattutto aveva il Subbuteo. Ed era come aprire una porta su una dimensione dove l’erba del prato era sintetica ma altrettanto epica.
L’origine del nome Subbuteo e il fascino del gesto

“Subbuteo” non è una parola inventata a caso né un errore tipografico sfuggito a un grafico distratto degli anni Cinquanta. È piuttosto un’affermazione di stile, un cortocircuito semiotico: l’epifania di un oggetto ludico che comincia a giocare già a partire dal proprio nome.
Siamo in Inghilterra a fine anni Quaranta. Peter Adolph, ex ufficiale della RAF, appassionato ornitologo e inventore dilettante, sta cercando di brevettare un nuovo gioco del calcio in miniatura pensato per essere pieghevole, trasportabile e capace di entrare in salotto senza bisogno di ricostruire Wembley.
Il primo nome che gli viene in mente è “Hobby” — un termine semplice, diretto, evocativo e guarda caso anche il nome inglese di un piccolo falco. Ma il nome è già registrato. Allora Adolph decide di aggirare l’ostacolo con un colpo da prestigiatore erudito: non potrà usare “Hobby”? Allora sceglierà il suo equivalente in latino: Falco Subbuteo.
Il risultato è un nome misterioso, esotico, quasi alchemico che evoca immediatamente qualcosa di colto e affilato come le ali del rapace da cui proviene.
Non “Football Game” non “Table Soccer” non “Mini Goal”. Ma Subbuteo. Una parola che nessuno sa pronunciare la prima volta ma che tutti ricordano. È come se il gioco nascesse già con una mitologia incorporata un’aura da reliquia perduta da decifrare con lente da filologo.
Come funziona il Subbuteo?

Il Subbuteo riproduce in miniatura il gioco del calcio su un panno verde che simula un campo da calcio. Ogni squadra ha undici giocatori montati su basi semisferiche che permettono loro di scivolare, ruotare, dribblare e tirare con un colpo di dito secco e calibrato. Un’arte meccanico-gestuale tra il biliardo e la meditazione.
Il gioco richiede coordinazione, strategia e una mano ferma. Ogni colpo ha una sua traiettoria segreta e la vera maestria non sta nella forza bruta ma nel dosare lo slancio, intuire l’angolo, prevedere il rimbalzo. Ogni azione è una scommessa silenziosa tra fisica e intuito.
E poi ci sono i rituali: sistemare le squadre, stirare il tappetino, calibrare la luce della lampada come fosse l’illuminazione di Anfield.
Il Subbuteo non si accende. Si prepara. Questa lentezza cerimoniale – oggi che tutto è immediato e multitasking – ha qualcosa di rivoluzionario.
Subbuteo vs. calcio da tavolo: un’altra filosofia del gioco

C’è chi lo chiama genericamente calcio da tavolo ma è un po’ come chiamare “acqua colorata” il Barolo. Una descrizione tecnicamente corretta ma tragicamente miope.
Negli altri giochi da tavolo calcistici — quelli con le leve, le rotelle o le pedine statiche — il movimento è meccanico, impersonale, anonimo. Qui si tratta di “fare la mossa giusta”. Nel Subbuteo invece gioca anche il corpo. Ogni tiro è come una pennellata di un calligrafo giapponese: irripetibile, imperfetta, piena di umanità.
Il dito è il pennello. Il tappetino è la tela. La partita non è solo competizione: è autoritratto. Alcuni giocatori sono spettacolari e impulsivi, altri chirurgici e minimalisti. Ognuno ha una “mano” riconoscibile come un chitarrista o un regista.
Il Subbuteo è un gioco profondamente artigianale: si limano le basi, si liscia il campo, si calibra la frizione.
Il campo non è mai lo stesso. È vivo. È soggetto a variabili minuscole e impercettibili – granelli di polvere, angoli di tappeto, temperatura dell’ambiente. Come la vita insomma.
Chi è il campione mondiale di Subbuteo?

Sì, il Subbuteo esiste ancora. Non è un reperto da soffitta né una reliquia per nostalgici in vestaglia: è vivo. Ha resistito alla rivoluzione digitale, ai joypad, agli FPS, agli open world, alle dirette Twitch e persino a FIFA 24.
È sopravvissuto come sopravvive il vinile, il flipper o la macchina da scrivere in mano a un poeta testardo: nonostante tutto.
Oggi esistono federazioni internazionali di Subbuteo, tornei continentali, classifiche ufficiali.
Ci sono club di Subbuteo che si allenano con costanza, con schemi e lavagne tattiche più degne di un CT che di un collezionista.
Alcuni campi di Subbuteo sono regolati al millimetro e i giocatori trattano i propri dischetti come Stradivari da custodire in velluto.
Il campione mondiale in carica nel 2025 è l’inglese Ruby Matthews un nome che suona insieme quotidiano e leggendario.
Potrebbe essere un personaggio di Nick Hornby ma gioca come se fosse uscita da uno shojo manga sportivo anni ’80. Ogni sua mossa è chirurgia applicata alla plastica, geometria in movimento, intuizione che precede la logica.
C’è chi la descrive come “la Federer del dito medio al femminile”, chi giura che riesca a curvare i suoi giocatori come se impartisse comandi telepatici. I suoi tiri non sono solo precisi: sono belli. Sono vera musica.
Perché il Subbuteo ci affascina ancora?

Forse perché il Subbuteo ci riporta a un tempo in cui l’immaginazione non aveva bisogno di 4K.
Bastava un panno verde che faceva da campo, qualche giocatore e il salotto diventava un’arena.
La finestra rifletteva le luci come fossero quelle dello stadio. Il cronometro era nella testa. Le urla erano vere, mica doppiate da uno speaker digitale.
Forse perché Subbuteo è uno dei pochi giochi dove il tempo si dilata, si fa materia. Dove si sbaglia con le dita e si impara col tatto. Dove si perde e si vince con eleganza senza reset. Dove ogni partita è irripetibile.
Come certe sere d’infanzia che non torneranno più — ma che puoi ancora sentire ogni volta che tocchi un dischetto di plastica e lo lanci verso il gol.
Cos’è il Subbuteo? È molto più di un gioco del calcio in miniatura. È un oggetto di culto, una macchina del tempo, un gesto poetico che prende vita sul tavolo.
Subbuteo è il sogno di uno stadio sotto il lampadario con giocatori pronti a scattare al primo tocco. È insomma un pezzetto di passato che ancora oggi ci gioca dentro.
Extra time: La partita che non c’è (ma ci gioca lo stesso)
Forse — anzi, sicuramente — la cosa che più mi ha attratto del Subbuteo non era tanto la competizione, la precisione del tiro, la soddisfazione del gol. Era l’irrealtà concreta della partita.
Quel tappetino verde non era solo campo da calcio, era palcoscenico mentale. Era il posto dove facevo scendere in campo squadre impossibili, selezioni assurde, formazioni oniriche. Altro che 4-3-3: qui si giocava 7-1-1-con-l’eco.
Come nei vecchi Football Manager per Commodore 64 o nei FIFA anni ‘90, in cui modificavi i nomi dei giocatori per schierare tuo zio, Batman e i membri dei Duran Duran. Lo facevamo tutti, dai. Ma con il Subbuteo era diverso. Era più teatrale. Più rituale. Più folle.
La partita che ancora oggi mi ronza nella testa — tra realtà alternativa e sogno a pixel bassi — è questa: i migliori calciatori del 1984 contro i migliori cantanti internazionali del 1984.
Da una parte Platini, Zico, Rummenigge, Sócrates, Paolo Rossi, Maradona ancora con i calzettoni stirati e il futuro tatuato nelle caviglie. Dall’altra, Freddie Mercury in porta con la corona, Prince come regista centrale, George Michael sulle fasce, Madonna ala sinistra e Boy George falso nueve, completamente incompreso tatticamente ma irrinunciabile per motivi stilistici.
A raccontare il tutto, l’unico in grado di dare una forma sobria all’assurdo: Bruno Pizzul
“E ora, gentili telespettatori…”
Signore e signori, buonasera. Siamo collegati da uno stadio che non ha un nome e nemmeno un indirizzo preciso.
Non è stato progettato da un architetto visionario, né compare nei dossier ufficiali della FIFA, ma ha qualcosa di perfettamente riconoscibile per chiunque abbia mai sognato, da bambino, una partita impossibile da organizzare eppure, per una qualche misteriosa ragione, incredibilmente vera. È una partita che accade, ora, qui, davanti ai nostri occhi increduli.
La cornice è silenziosa, quasi timida e sopra le teste dei presenti si distende un cielo che sembra finto, come dipinto da un illustratore nostalgico.
Il campo, se possiamo chiamarlo così, non è propriamente un campo: è un panno verde teso con cura, senza cuciture né imperfezioni, con la stessa dignità dei salotti della nostra infanzia dove ogni cosa aveva il potere magico della possibilità.
Le formazioni sono già schierate e fanno tremare perfino le categorie del pensiero. Da una parte, i migliori calciatori del 1984: Michel Platini che cammina come se il tempo gli appartenesse, Zico che accarezza la palla come se fosse un’idea appena sussurrata, Diego Armando Maradona che si presenta in ritardo — com’è sua abitudine — ma con quell’espressione inconfondibile che fa pensare che lui, in realtà, fosse già lì da prima.
Sócrates con la calma di chi ha appena finito di scrivere un trattato, Karl-Heinz Rummenigge che non sorride mai ma sa esattamente dove guardare e Paolo Rossi, taciturno e riservato ma solidamente presente.
E poi, da un’altra dimensione, arrivano loro. I cantanti. Freddie Mercury guida il gruppo con un mantello che in altri contesti sarebbe eccessivo ma che qui sembra perfettamente adeguato.
La corona sul capo è lievemente storta. Subito dietro, Prince non corre: scivola, fluttua come una nota di synth. George Michael ha il passo sicuro di chi è già leggenda.
Madonna mastica un chewing-gum con la grazia aggressiva di una sfida. David Bowie è fermo a centrocampo da dieci minuti buoni: in silenzio, con lo sguardo fisso, come se fosse il tempo stesso ad attendere un suo cenno per riprendere a scorrere.
Non ci sono inni. Nessuna coreografia o presentazione. Solo un silenzio assoluto. Quel genere di silenzio che non annuncia il nulla ma prepara all’essenziale.
Zico tocca il primo pallone con la leggerezza di chi non deve più dimostrare nulla. Platini lo riceve, lo controlla, alza lo sguardo — prima al cielo, poi a Sócrates — e lo serve con eleganza.
Sócrates, con passo lungo e placido, si avvicina, prende il pallone e si ferma. Aspetta. Un secondo. Due. Non per indecisione ma per rispetto del tempo e del gesto.
In quell’attimo sospeso, Maradona appare.
Non si avvicina: emerge. Prende palla come si prende una responsabilità, senza esitazioni.
Parte. Non corre, ma danza. Non dribbla, ma attraversa. Bowie lo osserva e si sposta con una grazia tutta sua.
Michael Jackson tenta l’inseguimento ma resta indietro. Adesso, davanti a Diego, c’è solo Freddie. Immobile. Le braccia larghe. Lo sguardo di chi regna, non di chi para.
Maradona non indugia. Guarda. Calcia.
Il tiro è secco, basso, senza fronzoli. Un atto, non un gesto.
Gol.
Uno a zero.

Ma non è un gol qualunque. È una dichiarazione d’intenti, una sinfonia d’apertura.
La musica non risponde con urla ma con grazia. Prince si avvicina al pallone, lo sfiora come fosse uno strumento a corde invisibili.
Lo muove. Lo fa girare. Lo ascolta. Poi lo lancia con precisione millimetrica e zero fretta.
Bowie lo riceve come si riceve una lettera attesa, lo passa a George Michael che si invola con eleganza. Cross basso. Madonna irrompe. Un tocco. Gol.
Uno a uno.

Non esulta. Fa spallucce. Torna indietro come se avesse solo ribadito un concetto.
Ora non c’è più ritmo: c’è armonia. I giocatori non si cercano: si intuiscono. La partita ha smesso di essere una competizione. È diventata una conversazione.
Sócrates guarda il pallone come si guarda una domanda importante. Diego lo riceve e lo trasforma in una risposta che non prevede spiegazioni.
Prince detta tempi che sfuggono ai cronometri. Rossi si smarca come se stesse sfuggendo a un pensiero.
Michael lo segue. Madonna cerca spazi dove non esistono. Platini li nega con una carezza del piede.
Zico ci prova. Bowie lo capisce prima ancora che possa pensarlo.
Punizione dal limite. Sócrates si avvicina, poggia il pallone con due dita. Non lo sistema: lo accompagna. Un passo indietro. Un respiro. Calcia.
La palla gira, danza, vola. Freddie vola con lei. Tocca. Ma non basta. Entra.
Due a uno.

Il tempo ora si fa denso, viscoso, rallenta. Non scorre più: vibra.
Il pareggio arriva come un’inevitabilità. Un lampo, una trama, un tocco di Prince, una deviazione di George Michael. Due a due.
Tutto ora è sospeso. Il tempo non passa: osserva. Si va ai rigori.
Zico sbaglia. George Michael segna con lo sguardo basso. Maradona trasforma e si volta subito.
Madonna segna e ride. Platini piazza la palla sotto l’incrocio con l’eleganza di un direttore d’orchestra. Prince sbaglia. O forse sceglie di non segnare.
Ultimo rigore. Paolo Rossi. Freddie Mercury.
Rossi cammina lento. Non ha paura. Ma nemmeno urgenza. Guarda il portiere. Guarda il pallone. Guarda altrove. Poi calcia.
Freddie vola.
La prende.
E per un attimo il mondo si ferma.
Nessun urlo. Nessuna corsa. Solo un applauso, partito da un punto impreciso nello spazio e nel tempo. Un applauso che non celebra una vittoria ma un ricordo. Un’idea. Un sogno condiviso.
E forse ha vinto la musica. Ma il calcio — questa sera — ha trovato il modo di suonare.
Il mondo, per un istante eterno, ha ascoltato.

E ora consigli per gli acquisti… A voi regia.