Liverpool, fine anni Settanta. In uno scenario post‑punk in fermento nasce un gruppo destinato a lasciare il segno: Echo & The Bunnymen. La formazione originale vede Ian McCulloch (voce) come carismatico frontman, il chitarrista Will Sergeant a tessere paesaggi sonori con la sua sei corde e Les Pattinson al basso.
All’inizio non hanno un batterista in carne e ossa, ma una drum‑machine. Il nome della band – un’eco misteriosa abbinata a improbabili “uomini‑coniglietto” – sembra uscito da un racconto surreale; c’è persino chi crede che Echo fosse in realtà la drum‑machine stessa, un’ipotesi bizzarra che girava nei club della città.
Presto, però, il talentuoso Pete de Freitas si unisce alla batteria, dando al sound degli Echo una spinta propulsiva decisiva.
Alfieri del rinascimento musicale di Liverpool all’alba degli anni ’80, McCulloch e compagni traghettano il suono dal post‑punk verso un rock dall’anima new wave e neo‑psichedelica, con melodie avvolgenti e un romanticismo tenebroso.
La critica li nota subito: c’è chi parla di atmosfere «cupamente affascinanti» nei loro brani e paragona la voce baritonale di Ian ai grandi del rock (Jim Morrison su tutti).
Gli Echo, come li chiamano i fan per brevità, si costruiscono una reputazione di culto che presto sfocia in successo di classifica.
La tentazione di perdersi in digressioni sarebbe forte (la scena dei club fumosi, le pose da giovani bohémien, i riferimenti colti dei testi) ma quella è un’altra storia. Devo venire al sodo, se no a forza di divagare ci dissolviamo nella stratosfera. Quindi aprite bene le orecchie e ascoltate: stiamo per ripercorrere, album dopo album, la discografia di Echo & The Bunnyman degli anni ’80, quella che ha davvero definito un’era.
Crocodiles (1980)

Il 1980 segna l’esordio fulminante degli Echo & The Bunnymen con Crocodiles, registrato fra marzo e maggio ai Rockfield Studios nel Galles con il produttore Bill Drummond e il mago dei suoni David Balfe.
Il risultato è un viaggio tra luce e ombra, sospeso tra furia post‑punk, fraseggi psichedelici e visioni oniriche alimentate da litri di adrenalina giovanile.
Il disco si apre con il clangore serrato di «Going Up» e si chiude con l’inquietudine quasi western di «Happy Death Men», come a disegnare un perimetro notturno in cui ogni traccia è un lampo: dalla frenesia di «Rescue», singolo che li porta per la prima volta nella Top 20 britannica, alla claustrofobia di «Pictures on My Wall», passando per il trip narcotico di «Villiers Terrace» (ispirata, pare, a una vera casa occupata di Liverpool).
La voce di McCulloch oscilla dal sussurro al grido evocando idoli e demoni interiori, mentre la chitarra di Will Sergeant ricama trame taglienti attorno al basso pulsante di Les Pattinson e alla batteria metronomica – ormai umana – di Pete de Freitas.
Pubblicato a luglio, Crocodiles conquista la critica (NME lo definisce «un oscuro gioiello che brilla di pericolo»), entra al numero 17 della UK Albums Chart e, soprattutto, pianta il primo vessillo di una nuova mitologia: quella di quattro ragazzi di Liverpool capaci di trasformare ansia e romanticismo in elettricità pura.
Heaven Up Here (1981)

La consacrazione arriva l’anno seguente con Heaven Up Here (1981), registrato fra febbraio e maggio ai Rockfield Studios del Galles sotto la guida del produttore Hugh Jones.
Forte dell’esperienza live, il quartetto punta a catturare su nastro l’energia cruda del palco, incidendo brani quasi in presa diretta.
Il risultato è un salto evolutivo rispetto a Crocodiles: il basso elastico di Les Pattinson avvolge i riverberi taglienti di Will Sergeant, Pete de Freitas picchia pattern tribali e la voce di Ian McCulloch declama versi intrisi di simbolismi nautici e presagi oscuri.
Il brano d’apertura «Show of Strength» stabilisce il tono tempestoso dell’album, cui seguono l’incalzante «With a Hip», l’ipnotica title‑track e l’elegiaca «All My Colours» (nota anche come «Zimbo», con un coro di percussioni africane che prelude alle sperimentazioni future).
I singoli «A Promise» e «The Disease» ottengono passaggi radiofonici, ma Heaven Up Here preferisce condurre l’ascoltatore in percorsi labirintici fatti di dinamiche ascendenti e improvvise spirali di feedback.
Pubblicato il 30 maggio 1981, l’album entra al numero 10 della UK Albums Chart: è il primo vero successo di classifica per gli Echo e vale loro il premio NME come Best Album 1981. Melody Maker lo definisce «il suono di un mare notturno che si schianta sulla scogliera dei nostri nervi».
A distanza di decenni, gruppi come The National, Interpol ed Editors citeranno Heaven Up Here come influenza chiave sulle loro atmosfere crepuscolari.
La fotografia di Brian Griffin immortala i quattro su una spiaggia gallese avvolta nella foschia resta, ancora oggi, una delle copertine iconiche del post‑punk britannico.
Porcupine (1983)

Con Porcupine (1983) gli Echo ottengono il successo di pubblico senza sacrificare la propria visione.
Il disco nasce in circostanze tempestose: registrato tra giugno e agosto 1982 ai Rockfield Studios nel Galles e agli Amazon Studios di Liverpool con il produttore Ian Broudie, viene inizialmente rifiutato dalla casa discografica per l’atmosfera giudicata «troppo cupa».
Depressione, tensioni interne e un’estate britannica costantemente plumbea permeano quelle prime take. «Sembrava che stessi cantando dal fondo di un pozzo», ricorderà poi Ian McCulloch.
All’inizio del 1983 la band torna in studio, aggiungendo gli archi ipnotici del violinista indiano Shankar che rivestono i brani di un’aura cinematografica.
Il tocco orientale conferisce profondità a un corpo di canzoni già denso: dal crescendo mistico di «The Cutter» alle poliritmie nervose di «The Back of Love», passando per la title‑track dal passo ossessivo e la visionaria «Heads Will Roll».
Will Sergeant cesella riff liquidi e taglienti, Les Pattinson fa vibrare corde elastiche, mentre Pete de Freitas scolpisce pattern tribali che risuonano come tuoni lontani.
Pubblicato il 4 febbraio 1983, Porcupine balza al numero 2 della UK Albums Chart e colloca due singoli («The Back of Love» e «The Cutter») nella Top 20, spingendo gli Echo sulla soglia del mainstream senza smussarne l’identità.
La critica si divide: per alcuni è l’album più estremo della band, per altri il più avventuroso.
Tutti concordano sul fatto che con Porcupine gli Echo & The Bunnymen abbiano spinto il post‑punk oltre il limite dell’introspezione, aprendo una porta su paesaggi interiori ancora inesplorati.
Ocean Rain (1984)

Ocean Rain (1984) è l’apice artistico della band e il punto di arrivo naturale della trilogia inaugurata con Crocodiles.
Registrato tra ottobre 1983 e febbraio 1984 ai Les Studios des Dames di Parigi e agli Amazon Studios di Liverpool, con ulteriori sessioni al Crescent Studios di Bath, l’album vede il gruppo affiancato da una vera orchestra di 35 elementi diretta da Adam Peters.
La produzione, condivisa con il giovane ingegnere del suono Gil Norton, punta a un suono «più cinematografico di qualsiasi film», come lo definì Will Sergeant.
Fin dall’attacco maestoso di «The Killing Moon» – singolo pubblicato il 20 gennaio 1984 e volato al n. 9 della UK Singles Chart – si intuisce che qualcosa è cambiato: archi lussureggianti, chitarre liquide e una voce che fluttua tra fatalismo esistenziale e romanticismo cosmico.
Il disco prosegue con la rincorsa argentea di «Silver» (n. 30 in classifica), l’ariosa malinconia di «Crystal Days», il tribalismo orchestrato di «Nocturnal Me» e il valzer acqueo di «Seven Seas» (n. 16 nelle chart).
Ogni traccia è incastonata in arrangiamenti barocchi che, pur ricchi, lasciano respirare la tensione melodica tipica degli Echo.
Pubblicato il 4 maggio 1984, Ocean Rain raggiunge il numero 4 della UK Albums Chart, guadagnandosi lo status di classico assoluto del post‑punk.
La stampa inizialmente si divide – NME lo definisce «un salto nel buio rischioso ma affascinante», mentre Melody Maker applaude al «romanticismo titanico» – ma il responso del pubblico è entusiasta.
Nei concerti successivi, la band proietta lo slogan «the greatest album ever made» sullo sfondo del palco, metà ironia metà promessa.
A distanza di anni, fan e critici concordano che la title‑track, con il suo crescendo di archi e percussion, sigilli davvero uno dei dischi più evocativi degli anni ’80: il momento in cui la tempesta emotiva degli Echo si schiude in un mare aperto di pura poesia sonora.
Echo & The Bunnymen (1987)

Concluse le grandiose orchestrazioni di Ocean Rain, gli Echo si trovano a un bivio creativo.
Per il quinto LP, l’omonimo Echo & The Bunnymen (1987), la band cambia scenario: le sessioni cominciano nel luglio 1986 agli ICP Studios di Bruxelles con il produttore Laurie Latham, proseguono agli Amazon Studios di Liverpool e si chiudono ai Wisseloord Studios nei Paesi Bassi, dove Bruce Lampcov cura mix e rifiniture.
Pete de Freitas, rientrato dopo un momentaneo addio, inceppa un groove più rotondo; Will Sergeant esplora timbri luminosi con chitarre a dodici corde, mentre Ian McCulloch, affascinato dal pop americano dell’epoca, modella melodie più immediate.
Ne scaturisce un album pop‑rock elegante, levigato da tastiere e riverberi digitali, che comunque mantiene l’aura onirica tipica del quartetto.
I singoli «The Game» (giugno 1987) e soprattutto «Lips Like Sugar» (agosto 1987) intercettano le radio statunitensi e spalancano alla band le porte dell’alternative‑rock d’oltreoceano: MTV mette in alta rotazione il video diretto da Anton Corbijn.
Seguono «Bedbugs and Ballyhoo» e la cover dei Doors «People Are Strange», incisa per la colonna sonora di The Lost Boys (raggiunge il n. 29 in UK).
L’album debutta al n. 4 della UK Albums Chart e arriva al n. 51 della Billboard 200, vetta commerciale mai toccata prima dagli Echo.
Dietro i riflettori, però, la macchina si incrina: l’etichetta spinge per un suono sempre più radio‑friendly, McCulloch è sotto stress mediatico e le tensioni interne crescono.
A fine 1988 il frontman lascia ufficialmente il gruppo per intraprendere la carriera solista, lasciando gli altri spaesati.
Così, gli anni ’80 si chiudono con un disco che unisce pop e penombra, successo e frattura: l’ultimo ruggito della formazione classica prima di un lungo inverno di silenzi e tragedie.
Gli anni ’90 e oltre
Nel 1989 Pete de Freitas muore in un incidente motociclistico. Sergeant e Pattinson tentano di continuare con un nuovo cantante, pubblicando Reverberation (1990), ma senza la voce di Ian l’alchimia sfuma.
A metà anni ’90 McCulloch e Sergeant si ritrovano – prima come Electrafixion, poi rifondando gli Echo & The Bunnymen con Pattinson – e il comeback Evergreen (1997) riporta la band nelle classifiche, trainato dalla ballata «Nothing Lasts Forever».
Seguono What Are You Going to Do with Your Life? (1999) e, nel 2001, l’album Flowers. Proprio il 2001 diventa un anno chiave per la rinascita del mito: il film cult Donnie Darko impiega «The Killing Moon» nella celebre scena d’apertura, consegnando il brano (e la band) a una generazione che non era ancora nata nel 1984; e il 12 luglio, in cima alla Rocca di Urbino, gli Echo infiammano il festival Frequenze Disturbate con un set notturno che intreccia classici («The Cutter», «Seven Seas») e nuovi inni («Nothing Lasts Forever»), lasciando un ricordo indelebile nei fan italiani.
La seconda giovinezza continua con Siberia (2005), The Fountain (2009) e Meteorites (2014).
Nel 2018, con The Stars, The Oceans & The Moon, gli Echo rivisitano il proprio repertorio in veste orchestrale, suggellando oltre quarant’anni di carriera.
Relics?
Più che reliquia di un’epoca, il lascito degli Echo & The Bunnymen funziona oggi come una cassetta degli attrezzi per chiunque voglia fondere melodia e abisso.
Dallo streaming – dove Crocodiles convive con playlist di bedroom‑pop – ai remix di giovani producer che campionano «Over the Wall», il loro lessico sonoro resta sorprendentemente duttile.
McCulloch e Sergeant portano ancora queste canzoni in tour con la stessa naturalezza con cui le concepirono: brani che non si cristallizzano, ma cambiano ombra a ogni nuova luce di palco.
Quando parte il primo arpeggio, si capisce che la stagione degli Echo non è mai finita: si è soltanto allargata, come la marea che loro stessi invocavano nei testi.
Discografia
Album in studio con etichetta e tracklist
- Crocodiles – 18 luglio 1980, Korova
- Going Up
- Stars Are Stars
- Pride
- Monkeys
- Crocodiles
- Rescue
- Villiers Terrace
- Pictures on My Wall
- All That Jazz
- Happy Death Men
- Heaven Up Here – 30 maggio 1981, Korova
- Show of Strength
- With a Hip
- Over the Wall
- It Was a Pleasure
- A Promise
- Heaven Up Here
- The Disease
- All My Colours (Zimbo)
- No Dark Things
- Turquoise Days
- All I Want
- Porcupine – 4 febbraio 1983, Korova
- The Cutter
- The Back of Love
- My White Devil
- Clay
- Porcupine
- Heads Will Roll
- Ripeness
- Higher Hell
- Gods Will Be Gods
- In Bluer Skies
- Ocean Rain – 4 maggio 1984, Korova
- Silver
- Nocturnal Me
- Crystal Days
- The Yo Yo Man
- Thorn of Crowns
- The Killing Moon
- Seven Seas
- My Kingdom
- Ocean Rain
- Echo & The Bunnymen – 6 luglio 1987, WEA/Korova
- The Game
- Over You
- Bedbugs and Ballyhoo
- All in Your Mind
- Bombers Bay
- Lips Like Sugar
- Lost and Found
- New Direction
- Blue Blue Ocean
- Satellite
- All My Life
- Reverberation – 5 novembre 1990, Korova
- King of Your Castle
- Enlighten Me
- Gone, Gone, Gone
- Yesterday Today
- Bottom Line
- Home Is a Heartache
- Devilment
- Heaven’s Gate
- Thick Skinned World
- Freaks Dwell
- Evergreen – 14 luglio 1997, London Records
- Don’t Let It Get You Down
- In My Time
- I Want to Be There (When You Come)
- Evergreen
- I’ll Fly Tonight
- Nothing Lasts Forever
- Baseball Bill
- Altamont
- Just a Touch Away
- Empire State Halo
- Too Young to Kneel
- Forgiven
- What Are You Going to Do with Your Life? – 16 aprile 1999, London Records
- What Are You Going to Do with Your Life?
- Rust
- Get in the Car
- Baby Rain
- History Chimes
- Lost on You
- Morning Sun
- When It All Blows Over
- Fools Like Us
- Flowers – 22 maggio 2001, Cooking Vinyl
- King of Kings
- SuperMellow Man
- Hide & Seek
- Make Me Shine
- It’s Alright
- Buried Alive
- Flowers
- Everybody Knows
- Life Goes On
- An Eternity Turns
- Burn for Me
- Siberia – 19 settembre 2005, Cooking Vinyl
- Stormy Weather
- All Because of You Days
- Parthenon Drive
- In the Margins
- Of a Life
- Make Us Blind
- Everything Kills You
- Siberia
- Sideways Eight
- Scissors in the Sand
- What If We Are?
- The Fountain – 12 ottobre 2009, Ocean Rain Records
- Think I Need It Too
- Forgotten Fields
- Do You Know Who I Am?
- Shroud of Turin
- Life of 1,000 Crimes
- The Fountain
- Everlasting Neverendless
- Proxy
- Drivetime
- The Idolness of Gods
- Meteorites – 26 maggio 2014, 429 Records
- Meteorites
- Holy Moses
- Constantinople
- Is This a Breakdown?
- Grapes Upon the Vine
- Lovers on the Run
- Burn It Down
- Explosions
- Market Town
- New Horizons
- The Stars, The Oceans & The Moon – 5 ottobre 2018, BMG
- Bring On the Dancing Horses
- The Somnambulist
- Nothing Lasts Forever
- Lips Like Sugar
- Rescue
- Rust
- Angels & Devils
- Bedbugs and Ballyhoo
- Zimbo
- Stars Are Stars
- Seven Seas
- The Cutter
- How Far?
- The Killing Moon
- Ocean Rain
Domande frequenti (FAQ)
Quali album hanno pubblicato gli Echo & The Bunnymen negli anni ’80?
Crocodiles (1980), Heaven Up Here (1981), Porcupine (1983), Ocean Rain (1984) e Echo & The Bunnymen (1987).
Qual è l’album più celebre del periodo?
Molti fan e critici indicano Ocean Rain (1984), grazie soprattutto al singolo «The Killing Moon».
Perché “la discografia di Echo & The Bunnyman” è considerata fondamentale?
Perché unisce energia post‑punk, sperimentazione psichedelica e melodie epiche, influenzando band dall’alternative rock all’indie odierno.
Che ruolo ha avuto “The Killing Moon” in Donnie Darko?
La canzone apre il film e ne diventa tema ricorrente, contribuendo a rilanciare il gruppo presso la generazione anni Zero.
Gli Echo suonano ancora dal vivo?
Sì. Ian McCulloch e Will Sergeant portano ancora in tour il repertorio della band, con date regolari in Europa e Nord America.