Quale storia edificante dei tempi andati vi racconto oggi? Boh, vediamo. Ce ne sarebbero molte, alcune forse persino vere, altre mutate e ingigantite dal tempo e dal mio vecchio cervello che ormai rumina i ricordi come una mucca stanca e saggia.
Ma oggi parliamo di un anno preciso. Il 1989. L’anno in cui cadde il Muro, in cui Madonna cantava “Like a Prayer” e in cui nacque qualcosa che, almeno da queste parti, ebbe un impatto pari alla scoperta del fuoco: il Cocoricò.
Ora, mettiamo subito le cose in chiaro: non sono mai stato al Cocoricò. Non ho mai visto dal vivo la sua piramide luminosa, non ho mai attraversato l’ingresso con occhi sgranati da ragazzino o con l’aria stanca di un vecchiaccio nostalgico. Ma il Cocoricò c’è sempre stato. Come un faro, come una leggenda, come una promessa.
È talmente leggendario che ogni volta che dico di venire da un piccolo paesino tra Riccione e Bologna – e no, non dirò mai il nome, tanto se dicessi Ceseina non capirebbe nessuno dove mi trovo, a parte forse i fan più sfegatati di Venditti – a tutti si accende una lampadina. Una specie di riflesso pavloviano, che illumina un ricordo legato al Cocoricò.

Una volta, a Roma, un tassista mi confidò che da giovane, certi sabati sera, “rubabava” il taxi di servizio e partiva verso Riccione. Solo per ballare sotto quella piramide mistica. Era il suo personale battesimo del sabato notte.
Il Cocoricò non era solo una discoteca. Era un rito. Un portale. Un luogo che trasformava ragazzini in piccoli indemoniati. C’era il parcheggio, sempre pieno di beveroni fluorescenti e sguardi accesi. C’erano i “correte qui” gridati nel vento notturno. E poi c’era l’attesa. Come se a mezzanotte, da qualche parte nel mondo, fosse suonato il gong che dava inizio a qualcosa di più di una semplice serata. Era uno stato di passaggio. O un passaggio di stato. Chi può dirlo.
Il perché abbia chiuso il Cocoricò è una domanda da trattare con la cautela riservata ai miti caduti. Nel 2019 fu costretto alla chiusura per una serie di problematiche legate alla sicurezza e alla gestione, culminate purtroppo nella tragedia di un ragazzo che perse la vita. Una di quelle notizie che colpiscono il cuore stesso del mito, mettendo in discussione tutto, anche l’idea stessa di festa.
Ma come ogni creatura mitica, anche il Cocoricò non è scomparso del tutto. Ha cambiato pelle, si è rinnovato, è tornato, pur con altre modalità, altri gestori, altre intenzioni.
Chi è, oggi, il proprietario del Cocoricò? Il nome che ricorre è quello di Enrico Galli, imprenditore legato al mondo della notte, già volto noto nel panorama del clubbing italiano. Ha guidato la rinascita della discoteca, cercando di mantenerne lo spirito ma con una maggiore attenzione alla sicurezza e al rispetto delle regole.
Quanto alla capienza del Cocoricò, parliamo di numeri importanti: circa 2.500 anime che possono ballare all’unisono, suddivise tra le varie sale. La Piramide, il Morphine, il Titilla. Tre nomi, tre atmosfere, tre vibrazioni diverse. Tre mondi dentro un unico universo notturno.

E per entrare al Cocoricò? Bisogna avere almeno 18 anni. Una soglia che segna, forse non a caso, il passaggio all’età adulta. Come dire: entra qui e lascia fuori il bamboccio che è in te.
Eppure, ogni volta che si parla del Cocoricò, anche chi non ci è mai stato lo sente un po’ suo. Forse perché il Cocoricò è una narrazione collettiva, un archetipo.
La sua piramide luminosa continua a brillare nei racconti, nelle foto sgranate, nei flyer appesi in qualche garage o infilati tra le pagine di un diario dimenticato.
Certo, ci sono quelli che dicono: “Era meglio prima”, quelli che rimpiangono i beveroni artigianali, le prime luci dell’alba viste da un parcheggio con gli occhi spalancati, i bassi che ti spaccavano il petto. Ma ci sono anche quelli che oggi varcano quell’ingresso per la prima volta, pronti a farsi travolgere da qualcosa che forse non è più la stessa, ma porta con sè un pezzetto di quell’anima.
Io, dal canto mio, continuo a non esserci mai stato. Sorrido. Perché in fondo, anche non avendoci messo piede, il Cocoricò è una parte della mia storia. E di quella di tutti noi dalle parti della Riviera.
Adesso scusate. Devo andare a ruminare un po’ di falsi ricordi.