C’è stato un tempo in cui le storie non si scrivevano, si montavano. Non avevano una trama lineare, ma una base di plastica con piolini e una fantasia ancora grezza.
Quel tempo per me iniziò negli anni Ottanta, quando i Lego smettevano di essere solo casette con balconi e fiorellini, per diventare mondi fertili di fantasia. Mondi con regni, pianeti, fortezze e navicelle spaziali.
Era come se il gioco, da attività meccanica, si fosse trasfigurato in linguaggio. E quel linguaggio parlava direttamente al bambino che voleva diventare autore, regista, inventore di universi.
Era un passaggio sottile ma epocale: non si trattava più di costruire oggetti, ma scenari. Non più edifici, ma narrazioni.
Una piccola rivoluzione silenziosa fatta di plastica colorata, che apriva un portale magico verso qualcosa di più grande: l’immaginazione strutturata, una mitologia personale.
La rivoluzione degli anni ’80

Negli anni Settanta guardavo i mattoncini Lego con un certo sospetto. Non capivo. La costruzione fine a se stessa mi lasciava freddo. Case color pastello, mamme col grembiule, balconi in fiore: tutto troppo simile alla realtà che vedevo intorno. Come molti altri bambini della mia generazione, cercavo altro. Cercavo il racconto. Il viaggio. L’avventura.
Fu negli anni Ottanta che Lego cambiò pelle. Nacquero le collezioni Spazio e Medio Evo. Mi folgorarono. Letteralmente.
Quelle minifigure con caschi da guerra, scudi con leoni rampanti, ponti levatoi, catapulte e le torri merlate.
L’idea che un castello potesse avere una torre accessibile, una sala del trono e persino una prigione. Il fascino dell’ignoto, condensato in pochi centimetri di plastica.
Potere al dettaglio

A scuola, alle elementari, i Lego erano protagonisti di ogni giornata. Si scambiavano pezzi, nascevano leggende.
Alcuni portavano in classe cavallieri con elmi e visiere, altri mostravano con orgoglio un astronauta con lo zaino propulsore.
Ogni personaggio era seme narrativo. Bastava accostarlo a un diorama fatto in cameretta, magari con qualche pezzo recuperato dalla scatola di un’altra collezione, e il gioco si faceva racconto. La costruzione diventava scenografia.
Ricordo che si poteva essere felici anche con un semplice personaggio: un pompiere col casco rosso e la sua pompa d’acqua, un addetto alla benzina, con la sua minuscola stazione di servizio.
Non era tanto la complessità a fare la magia, quanto il dettaglio. Una piccola visiera trasparente, un walkie-talkie, una spada argentata o un elmo con visiera mobile. Erano dettagli, certo, ma ognuno di essi conteneva una promessa.
Poi c’era quella sensazione strana, da architetti in miniatura, quando completavi una costruzione.
Una base segreta nello spazio, un castello con il ponte levatoio funzionante, una casa con l’osservatorio sul tetto.
Una volta finita, perfetta, veniva naturale lasciarla così. Come si fa con un’opera d’arte. L’idea di smontarla per costruire qualcos’altro era quasi dolorosa. Perché quella casa, quel castello, ormai ti appartenevano. Avevano una storia. Erano diventati parte della tua infanzia.
I mattoncini del futuro

Col passare degli anni, mentre molti abbandonavano i mattoncini per rincorrere joystick e floppy disk, Lego ha saputo reinventarsi. Ha stretto alleanze con l’immaginario collettivo, trasformandosi in un ponte tra generazioni.
Oggi, il nome Lego è legato a collezioni che sono vere e proprie opere d’arte per appassionati: Star Wars, Harry Potter, Il Signore degli Anelli. Ma soprattutto Star Wars.
Con set come il “Centro di Addestramento di Kamino” o la Morte Nera in scala, Lego ha trovato la chiave per rimanere rilevante. Non è più solo gioco: è memoria, è nostalgia, è valore collezionistico. Quei set, che sembrano usciti da un sogno lucido di un bambino degli anni ’80 diventato adulto, sono oggi tra i più ambiti al mondo. E non è difficile capire il perché.
C’è una poesia silenziosa nel montare un X-Wing pezzo per pezzo, nella cura con cui si seguono le istruzioni come fossero un manoscritto antico. Un gesto rituale, quasi zen. Il bambino costruisce per giocare. L’adulto costruisce per ricordare.
Brick To The Future

Lego è molto più di un semplice giocattolo. È una macchina del tempo fatta di plastica ABS. Ogni mattoncino è la sillaba di un racconto da scrivere con le mani, ma leggere col cuore. Ancora oggi, quando passo davanti a una scatola Lego, non riesco a provare un diffuso senso di gioia.
In ogni scatola di Lego ci sono ancora i cavalieri del mio Medio Evo personale, gli astronauti del mio piccolo universo. Ci sono le torri che costruivo per sentirmi più grande e le basi segrete dove nascondevo sogni troppo ingombranti per la realtà.
Ogni tanto, quando tutto si fa troppo complicato, mi sorprendo a pensare che forse dovremmo tornare lì, a quei mondi semplici, quando bastava smontare qualche mattoncino per iniziare una nuova storia e ricominciare tutto da capo.