Negli anni ’80, fare musica era un atto di fede, come urlare sottovoce in una tempesta o vendere fanzine fotocopiate fuori da un concerto dei CCCP.
Nessuno faceva playlist. Si facevano principalmente sbagli. Ci si credeva. Uno come Piero Pelù, con la voce roca e il cuore scorticato, saltava sul palco e sputava fuoco mentre i giornalisti mainstream prendevano appunti solo per stroncarti meglio il giorno dopo.
Oggi invece ti trovi Daniel Ek, ex nerd della pubblicità diventato re del nulla sonoro, che detta parametri di buon gusto da Stoccolma, mentre investe milioni in start-up belliche come Helsing, che sviluppano AI per uccidere con più precisione. Il paradosso è che tutto questo lo fa con i soldi della musica. Della tua musica. Della mia.
Spotify è un supermercato dove la musica è confezionata come cibo per astronauti. Senza odore, senza sapore. A lunga conservazione. Perfetta per un mondo che si sta disumanizzando nota dopo nota.
Un nuovo album di Zondini?
Forse una dichiarazione d’insofferenza. Ho iniziato a scrivere alcune cose nuove, ho pensato al concept. Ci sono alcune demo impefette ma hanno i denti più affilati di un Labubu. Scalpitano, stonano, ma hanno voglia di parlare un linguaggio diverso da quello dell’algoritmo.
C’è dentro l’eco di musica da cantina che non fa carriera, ma fa bene, che investe i sogni, non droni militari, condividendo la prospettiva di gente che si ostina a suonare davanti a cinque persone come se fosse il Wembley Stadium, perché credere in qualcosa di vivo
CONTRO IL NUOVO IMPERO (MA ANCHE IL VECCHIO)
Spotify ti paga 0,003 euro a stream. Sai chi ha usato una parte del proprio patrimonio da CEO per finanziare la guerra con l’intelligenza artificiale? Daniel Ek, lo stesso che ti dice che la musica è la colonna sonora della tua vita. Ma di quale vita, se nel frattempo aiuta a sviluppare software per localizzare esseri umani nei conflitti?
Questa non è solo avidità. È schizofrenia culturale. È come se qualcuno prendesse una canzone dei Nirvana e la usasse per vendere missili. È il contrario esatto di quello che faceva Piero Pelù: urlare contro la guerra, non sostenerla col Wi-Fi e l’ottimizzazione dati.
NON SOLO CONTRO, MA PRO-QUALCOSA
Voglio scrivere canzoni per chi non si è arreso all’idea che la musica debba compiacere. Per chi crede ancora che una chitarra scordata dica più della conferenza stampa di un investitore in mimetica. Per chi preferisce sbagliare riff piuttosto che vendere la pelle all’engagement.
Voglio scrivere un disco per cuori che battono fuori tempo. Per chi vorrebbe un mondo dove le startup costruiscono studi di registrazione nei quartieri, non software di riconoscimento per i droni. Per chi pensa che la musica sia pace, disordine, rabbia e poesia. Non guerra asettica fatta da intelligenze artificiali finanziate da chi pretende di capirci di canzoni.
IL FUTURO (O IL SUO FANTASMA)
Forse nessuno lo ascolterà. Forse rimarrà lì, nel mio hard disk, come una lettera d’amore non spedita. Ma se anche solo una persona sentirà una frase e si sentirà meno sola, allora sarà già successo qualcosa. Una crepa nella parete. Una fuga di luce.
E magari un giorno, qualcuno si chiederà com’è stato possibile che proprio chi doveva difendere la musica, l’ha trasformata in una stampante di metadati per finanziare progetti bellici. Quel giorno, il silenzio sarà complice. Ma oggi, qui, non ancora.
LA CHIAMATA (SENZA UNIFORMI)
Vuoi ascoltare qualcosa fuori dall’algoritmo? Qualcosa che non ti chiede di cliccare, ma di pensare?
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Nessun piano editoriale. Nessun Friday Release. Solo canzoni vere, rabbia vera, e quella goffa, gloriosa umanità che nessuna AI potrà mai riprodurre. Né col 3D, né col machine learning, né con Helsing.
Perché questa è musica. Non un asset da riconvertire in fondi militari.
Dalla parte sbagliata della storia. Ma almeno con le casse accese.