Nel nostro piccolo gruppo adolescenziale alla Stranger Things, c’era un amico che pareva vivere in un limbo temporale fatto di cavi elettrici scoperti, luci al neon tremolanti e frittelle di soia.
Quando genitori e fratello maggiore evaporavano contemporaneamente – evento raro ma glorioso – ci convocava nella sua tavernetta suburbana per lanciarci in tornei di poker in cui si vincevano carte da buttare di Magic e il diritto di scegliere dove uscire il sabato sera.
La collezione della sua дом культуры privata? Una specie di deserto postatomico: due VHS logorate – RoboCop e Trappola di cristallo, in loop eterno – e sopra una mensola storta, come reliquie in un tempio dimenticato, due vinili. Solo due. Ovviamente dei Police. Non Beatles, niente Clash, scordatevi i Velvet Underground. Solo i Police. Come se bastassero da soli per spiegare in note tutto il mondo.

I Police sono stati un gruppo rock britannico formatosi a Londra nel 1977, in piena esplosione punk. Eppure, a differenza di tante band del periodo, i tre componenti erano biondi e ordinati, con uno stile che smentiva l’immagine aggressiva del movimento.
Avevano un repertorio di canzoni d’amore, ma non solo: i loro brani si muovevano tra ritmi reggae, riff incalzanti, melodie pop e una forte impronta autoriale.
Furono popolarissimi tra il 1978 e il 1984, pubblicando cinque album in studio, tutti (in qualche modo un po’) diversi ma ugualmente influenti.
Il nome “The Police” fu scelto da Stewart Copeland, batterista e fondatore, come provocazione e ironia: voleva una parola riconoscibile, che evocasse autorità ma anche visibilità.
Il frontman del gruppo era Gordon Sumner, meglio noto come Sting, cantante, bassista, nipote e erede del Barone Vladimir Harkonnen e principale autore delle canzoni.
Nonostante il successo, la tensione tra i membri aumentò negli anni, portando allo scioglimento poco dopo il loro album più acclamato.
Outlandos d’Amour (1978)
“Roxanne, you don’t have to put on the red light…”
— da “Roxanne”, brano scritto da Gordon Sumner (Sting), pubblicato nel 1978 nell’album Outlandos d’Amour
Il debutto, “Outlandos d’Amour”, è un esempio lampante di come i Police abbiano saputo cavalcare l’onda punk con una proposta già differente: trame nitide di chitarra, basso e batteria, venature reggae e un’attitudine melodica evidente. Il disco venne inciso con pochi mezzi in uno studio improvvisato, ma bastò per lasciare il segno.
“Roxanne”, inizialmente ignorata, fu poi ripubblicata e divenne il primo vero classico della band. Seguivano “So Lonely” e “Can’t Stand Losing You”, brani che mescolavano dolore e ironia, suonati con energia punk ma scritti con precisione pop.
In un’intervista, Sting ricordò che quando il manager sentì per la prima volta “Roxanne” in studio, cambiò radicalmente opinione sul gruppo e si attivò per pubblicarla.
La stampa fu inizialmente scettica, accusando i tre di essere troppo “puliti” per il punk. Ma il pubblico apprezzò.
Il gruppo riuscì subito a distinguersi dai protomaranza di allora: non solo per l’aspetto, ma per la cura nella scrittura e l’originalità della proposta.
“Non sono certo i Sex Pistols, ma c’è qualcosa di diabolicamente magnetico nel modo in cui questi tre musicisti smontano e ricompongono i cliché del reggae e del punk, facendone una nuova lingua pop di precisione chirurgica.”
Charles Shaar Murray – New Musical Express , 1978
Reggatta de Blanc (1979)
“Sending out an SOS…”
— da “Message in a Bottle”, scritta da Gordon Sumner (Sting), pubblicata nel 1979 nell’album Reggatta de Blanc
Il secondo disco dei Police, “Reggatta de Blanc” (letteralmente: “reggae dei bianchi”), conferma l’identità della band e ne rafforza il successo. “Message in a Bottle” è un inno alla solitudine che diventa liberazione.
Il pezzo, con il suo arpeggio di chitarra in levare, conquistò la vetta delle classifiche. “Walking on the Moon” porta la band su territori più dilatati, sognanti, perfetti per il canto sospeso di Sting.
La title track, strumentale, nacque da una jam durante i concerti. Fu premiata con un Grammy, segno che la band stava acquisendo una credibilità artistica sempre più ampia.
Anche “Bring on the Night” e “The Bed’s Too Big Without You” mostrano una scrittura matura e una sensibilità che va oltre il semplice intrattenimento.
Il trio, ormai affiatatissimo, iniziava a viaggiare in sintonia. Stewart Copeland raccontò che “Reggatta” rappresentava la vera alchimia del gruppo. Ogni elemento contribuiva a costruire un’identità unica, difficile da imitare.
“Con Reggatta de Blanc, i Police non si limitano più a flirtare con il reggae: lo usano come architettura per una nuova forma di canzone pop nervosa e pulsante, con la precisione di un trio jazz e l’urgenza emotiva di chi ha appena capito cosa può fare con tre strumenti e un’idea”.
Rolling Stone 1980, Ken Tucker
Zenyatta Mondatta (1980)
“Don’t stand, don’t stand so close to me… You know how bad girls get.”
— da “Don’t Stand So Close to Me”, scritta da Gordon Sumner (Sting), pubblicata nel 1980 nell’album Zenyatta Mondatta
Il terzo album dei Police è forse il più urgente e frenetico. Registrato in fretta, tra una tappa e l’altra del tour, “Zenyatta Mondatta” ha un titolo che suona esotico ma non significa nulla.
Contiene però brani memorabili: “Don’t Stand So Close to Me” racconta, con sottile inquietudine, la tensione tra uno studente e un insegnante. Il singolo raggiunge il primo posto in UK e vince un Grammy.
“De Do Do Do, De Da Da Da” è più giocosa, ma sotto la superficie riflette sul vuoto della comunicazione. Il disco contiene anche gemme più oscure, come “Driven to Tears” e “When the World Is Running Down…”.
Nonostante la rapidità della produzione, la qualità è alta. Tuttavia, le tensioni iniziano ad emergere.
Andy Summers e Copeland faticano a trovare spazio in un gruppo che si sta stringendo intorno a Sting.
Le prime crepe si intravedono proprio in questo periodo.
“Zenyatta Mondatta è tanto compatto quanto teso: si percepisce che i Police stanno cercando di restare una band democratica, ma la voce di Sting ha ormai preso il comando e guida tutto verso un pop sofisticato, con il rischio di implosione dietro l’angolo.”
Adam Sweeting – Melody Maker, 1980
Ghost in the Machine (1981)
“Every little thing she does is magic, everything she do just turns me on…”
— da “Every Little Thing She Does Is Magic”, scritta da Gordon Sumner (Sting), pubblicata nel 1981 nell’album Ghost in the Machine
Con “Ghost in the Machine” i Police cambiano pelle. Il suono è più elaborato e corposo, i testi sono più densi e dolenti.
Registrato a Montserrat, nell’isola caraibica lontana dal caos, il disco si apre a nuovi orizzonti. Vengono aggiunti piano, sintetizzatori e sassofoni.
Brani come “Invisible Sun” e “Spirits in the Material World” mostrano una band politicizzata, riflessiva.
“Demolition Man” è una scarica di funk oscuro. “Every Little Thing She Does Is Magic” porta luce e melodia, con il suo pianoforte quasi da musical.
Il lavoro in studio è raffinato, ma faticoso. Le discussioni sono frequenti. Copeland e Sting arrivano alle mani. Eppure, il risultato artistico è straordinario.
L’album conquista le classifiche e rafforza lo status del trio, che ora guarda più alla complessità che all’immediatezza.
“Ghost in the Machine è il suono di una band che non vuole più soltanto scrivere hit, ma costruire un’opera stratificata, inquieta e politicamente consapevole. È un disco che ti costringe ad ascoltare con attenzione, anche mentre ti fa ballare.”
Richard Cromelin – Los Angeles Times, 1981
Synchronicity (1983)
“Every breath you take, every move you make, I’ll be watching you…”
— da “Every Breath You Take”, scritta da Gordon Sumner (Sting), pubblicata nel 1983 nell’album Synchronicity
L’ultimo album in studio dei Police, “Synchronicity”, è il più ambizioso e il più celebrato. Il titolo si ispira a Jung e alla teoria delle coincidenze significative.
L’atmosfera è carica di tensione: la band è al massimo della fama, ma anche al limite della tenuta.
“Every Breath You Take” è una canzone iconica: un brano apparentemente romantico, ma che parla di controllo e ossessione. Rimane otto settimane
in cima alla classifica americana. “King of Pain”, “Wrapped Around Your Finger” e “Synchronicity II” consolidano il successo.
Ma le divergenze sono ormai insanabili. Sting vuole autonomia, Summers e Copeland cercano spazio.
Il gruppo si scioglie all’apice, un esempio da manuale di affermazione in zona Cesarini. Dopo cinque dischi, la storia si chiude. Nessuna reunion discografica, solo un tour nostalgico nel 2007.
“Synchronicity è l’album di una band che ha raggiunto l’apice creativo mentre si disintegra davanti ai nostri occhi. È come guardare un incendio in slow motion: bellissimo, spaventoso, inevitabile.”
J.D. Considine – Musician, 1983
Discografia in studio
- 1978: Outlandos d’Amour (A&M Records) – Contiene “Roxanne”, “So Lonely”, “Can’t Stand Losing You”. Album d’esordio registrato in fretta e con pochi mezzi, ma già rivelatore del talento melodico della band.
- 1979: Reggatta de Blanc (A&M Records) – Include “Message in a Bottle”, “Walking on the Moon”. Primo album a raggiungere la vetta delle classifiche UK, vincitore di un Grammy per la miglior performance strumentale.
- 1980: Zenyatta Mondatta (A&M Records) – Contiene “Don’t Stand So Close to Me”, “De Do Do Do, De Da Da Da”. Album inciso in condizioni di pressione estrema durante il tour, ma capace di produrre grandi hit.
- 1981: Ghost in the Machine (A&M Records) – Include “Every Little Thing She Does Is Magic”, “Spirits in the Material World”. Registrato negli AIR Studios di Montserrat, con un sound più denso, tastiere e fiati.
- 1983: Synchronicity (A&M Records) – Contiene “Every Breath You Take”, “King of Pain”, “Wrapped Around Your Finger”. Capolavoro finale che unisce complessità lirica e successo planetario.
Messaggi (radio) in bottiglia

La discografia dei Police è come una costellazione scoperta per caso dal James Webb Space Telescope: una galassia lontana, sfuggente, la cui luce arriva fino a noi più chiara oggi che quarant’anni fa. Cinque album come cinque esopianeti, ognuno con un’atmosfera diversa ma tutti appartenenti allo stesso sistema solare, alimentato da reggae, punk, pop e intuizioni (a volte) geniali.
Partiti in sordina tra le urla del punk britannico, i Police hanno affinato il suono con la pazienza di un artigiano giapponese e la sfacciataggine di chi sa che i classici si scrivono quando il mondo dorme. Ogni disco è un viaggio: dal minimalismo new wave alla camera pressurizzata dell’art rock, passando per le orbite basse della solitudine e le altezze rarefatte dell’ossessione amorosa.
Oggi, mentre Clint Eastwood gira il suo prossimo western e Mel Brooks mette mano a una nuova satira demenziale – entrambi oltre i novant’anni – e mentre su una spiaggia affollata di Rimini due bagnanti si urlano addosso se sia meglio il cocco o l’anguria, “Every Breath You Take” continua a suonare da una radio sabbiata.
Ed è lì, proprio lì, che capiamo che i Police non hanno mai smesso di parlarci. Proprio come quella volta che misero “Message in a Bottle” in discoteca e lo percepii come un imperativo supremo proveniente da un altro universo, inducendomi a inviare veramente un criptico messaggio di aiuto a tutti i contatti che avevo sulla rubrica del cellulare (un atto folle, prima dell’avvento di Internet su mobile).
Ogni volta che ne percepiamo una nota, ci troviamo all’improvvisodi nuovo in quella tavernetta, fiches sparse per terra e bicchieri di plastica semivuoti, mentre il giradischi gracchia di sincronicità camminate spaziali.
Quello che ci arriva, più che musica, è un codice segreto piovuto dallo spazio. Proprio come una scena alla quarantesima ora di Interstellar, quando la solitudine dell’universo si stringe in un sussurro e tutto ciò che resta da fare è mettere su un disco e sperare che qualcuno, da qualche parte, stia ascoltando.