Fiducia non è una parola gentile. Nel branding, la fiducia non nasce da semplici slogan o storie carine: è una reazione profonda, quasi viscerale, a segnali ripetuti e coerenti.
Un brand può anche gridare “fidati di me” in ogni spot, ma se manda un solo segnale incoerente – un visual stonato, un tono fuori posto, un dettaglio di prodotto che tradisce le attese – quella fiducia si incrina in silenzio. Spesso in modo irreversibile.
In molti pensano che basti comunicare bene e avere un buon storytelling per conquistare il pubblico. Il cervello umano la pensa diversamente.
La fiducia genuina verso un marchio non nasce da un racconto, ma da un processo neurobiologico. Il nostro sistema limbico valuta ogni messaggio di marca non solo per cosa dice, ma per quanto è coerente con esperienze pregresse, con ciò che abbiamo già sentito e vissuto. In altre parole, costruire fiducia non significa dire le cose giuste: significa diventare il segnale giusto, quello che il cervello riconosce senza riserve.
Partiamo allora per un breve viaggio dal passato al presente, dagli anni ’80 ad oggi. Scopriremo come la fiducia in un brand si costruiva allora – tra icone pubblicitarie, spot martellanti e status symbol – e come oggi richieda un nuovo approccio basato su coerenza sensoriale ed evidenze neuro-biologiche.
I. La fiducia ai tempi degli spot
Una collezione di immagini pubblicitarie iconiche degli anni ’80 riflette come i brand dell’epoca si imponevano nell’immaginario collettivo.
Dalle campagne spiritose come “Where’s the beef?” di Wendy’s al lancio di sneaker Nike affidato al carisma di un giovane fenomeno del basket, gli anni Ottanta hanno trasformato i marchi in miti pop.
Erano simboli di status e protagonisti della cultura di massa, al punto che persino uno slogan pubblicitario poteva diventare tormentone nazionale.
Gli anni ’80 sono stati un’epoca d’oro per il branding, un periodo in cui la pubblicità sapeva farsi spettacolo e cultura pop allo stesso tempo.
Chi c’era ricorderà le serate davanti alla TV aspettando lo spot preferito: jingles orecchiabili che si fissavano in testa, mascotte e personaggi memorabili, slogan che a distanza di decenni riecheggiano ancora (“Milano da bere”, ti suona famigliare?).
In assenza di Internet e social media, la televisione e le riviste erano i templi dove i marchi costruivano la loro reputazione.
Un passaggio in prima serata su Canale 5 o su MTV poteva consacrare un prodotto da perfetto sconosciuto a fenomeno mondiale.
Il pubblico, meno bombardato di messaggi di quanto non sia oggi, tendeva a fidarsi istintivamente di ciò che conosceva: e conosceva ciò che vedeva e rivedeva spesso.
La psicologia ci insegna che la mera familiarità genera fiducia – è il cosiddetto effetto esposizione ripetuta.
Negli Ottanta questo effetto era il migliore amico dei brand: più vedevi un logo o sentivi un nome, più ti diventava familiare e dunque affidabile. Bastava un jingle azzeccato o un bel testimonial per scolpire il marchio nel cuore del pubblico.
In quegli anni la fiducia nel brand spesso coincideva con il suo status iconico. L’icona incarnava il brand stesso: pensiamo alla bottiglia contour della Coca-Cola o al logo inconfondibile della Apple arcobaleno.
Un prodotto diventava sinonimo di qualità quasi per fama. Se “tutti” lo compravano, se un determinato marchio era ostentato dai personaggi famosi o rappresentava un simbolo di appartenenza (i paninari con le Timberland e i piumini Moncler, ad esempio), allora ci si fidava.
Indossare o usare quel brand conferiva status e al contempo rassicurava: se è così popolare, sarà buono.
La dinamica era quasi tribale e aspirazionale. Per costruire fiducia, i brand degli ’80 puntavano su messaggi semplici e ripetuti fino all’ossessione, incarnati magari da testimonial carismatici: Michael Jackson che sorseggia Pepsi in uno spot evento, Mike Bongiorno che in TV garantisce “provato per voi!” su un elettrodomestico, o il campione dello sport di turno che giura che quella marca di scarpe “è la migliore”.
Erano icone che funzionavano da garanti: prendevamo in prestito la fiducia che avevamo in quelle celebrità o personaggi e la trasferivamo sul prodotto.
Va detto che in quel contesto la comunicazione era un monologo, non un dialogo. Il brand parlava – spesso in modo creativo e divertente – e il consumatore ascoltava.
Le aziende potevano controllare attentamente l’immagine pubblica: ogni messaggio era studiato, patinato, approvato.
Se qualcosa andava storto, spesso lo si scopriva tardi o per nulla. La fiducia poteva anche essere un po’ ingenua, basata su una patina di perfezione.
Ad esempio, quando nel 1985 la Coca-Cola cambiò improvvisamente formula introducendo la “New Coke”, ci fu uno shock: il pubblico si sentì tradito nel gusto a cui era affezionato.
La rivolta dei consumatori fu tale che Coca-Cola dovette fare marcia indietro e tornare alla ricetta classica.
Quell’episodio – oltre ad essere un curioso aneddoto pop – dimostrò che persino negli spensierati anni ’80 la fiducia verso un brand aveva radici profonde (in questo caso sensoriali e affettive) che il solo storytelling pubblicitario non poteva violare senza conseguenze.
Eppure, rispetto a oggi, possiamo dire che costruire fiducia in un brand era più lineare. L’equazione era: immagine forte + presenza costante + prodotto all’altezza = fiducia.
Se un marchio si presentava bene e manteneva le promesse basilari, il pubblico tendeva a rimanergli fedele. In mancanza di fonti alternative di informazione, spesso si dava al brand il beneficio del dubbio.
Fidarsi di un marchio era quasi parte del godersi il prodotto. Del resto, erano anni in cui si viaggiava senza TripAdvisor, si compravano elettrodomestici senza leggere mille recensioni: ci si affidava alla marca, alla fama e magari al consiglio del commesso. Una sorta di “età dell’innocenza” del consumo, in cui la fiducia poteva sembrare facile, costruita a colpi di martellanti messaggi positivi e immagini scintillanti.
II. Il cervello non si accontenta delle parole

Oggi quel mondo ci appare lontanissimo. Internet, i social media, le community online hanno trasformato la comunicazione in un villaggio globale dove tutto si sa in tempo reale.
Il pubblico è diventato protagonista attivo: commenta, verifica, smaschera. La fiducia è diventata un bene raro, da guadagnare sul campo e difendere con le unghie e con i denti.
Ogni minima incoerenza viene notata e può esplodere in tempo zero su Twitter o LinkedIn. Un cliente deluso, armato di smartphone, può minare la reputazione di un brand con un singolo post virale.
Se gli anni ’80 erano il monologo patinato di Madison Avenue, gli anni 2020 sono un dialogo serrato – spesso un tribunale pubblico – in cui coerenza e trasparenza non sono più opzionali.
Le neuroscienze e la psicologia del consumatore ci aiutano a capire perché oggi la fiducia è così fragile.
Il nostro cervello rettiliano ed emotivo è costantemente in allerta per cogliere segnali di pericolo o incongruenza.

Fidarsi significa, a livello biologico, abbassare la guardia – e tendiamo a farlo solo se nulla ci insospettisce.
Un brand è come una persona agli occhi del cervello emotivo: se mostra personalità doppia o comportamento imprevedibile, scatta un campanello d’allarme.
Come osserva Martin Lindstrom, guru del branding, un marchio incoerente ricorda un amico lunatico: oggi ti ispira e domani ti delude, e così finisci per non fidarti.
Al contrario, un brand che mantiene una condotta stabile e riconoscibile genera nel tempo un senso di familiarità sicura – lo stesso meccanismo per cui ci fidiamo delle routine e delle facce conosciute.
Non a caso, ricerche recenti indicano che l’ormone dell’attaccamento e della fiducia, l’ossitocina, entra in gioco anche nel rapporto consumatore-marca: uno studio ha rilevato un aumento di ossitocina endogena nelle persone esposte al proprio brand preferito.
In pratica, il cervello reagisce a un marchio amato in modo simile a come reagisce a una persona di cui si fida. Ma la condizione chiave perché ciò avvenga è la coerenza dell’esperienza: solo se il cervello ritrova ogni volta quegli stessi segnali positivi e rassicuranti, libera l’“ormone della fiducia”. Basta un elemento stonato e prevale invece la diffidenza.
Nel contesto attuale, storytelling e valori dichiarati rimangono importanti, ma non bastano più.
Storydoing e coerenza esperienziale sono le parole d’ordine. Tutto ciò che il brand fa – dal prodotto al servizio clienti, dal post sui social al packaging – deve allinearsi alla promessa comunicata.
Viviamo nell’era della sensorialità totale: il brand ci parla attraverso mille canali e sensi, non solo con uno spot TV.
Se anche uno solo di questi canali “stecca”, il nostro subconscio lo registra.
Immaginiamo di entrare in un negozio dall’atmosfera lussuosa, musica soffusa, commessi eleganti – e poi trovare il bagno sporco: quella piccola dissonanza può instillare un dubbio sul livello di qualità reale.

Oppure pensiamo a un’azienda che sui social predica sostenibilità ma poi viene scoperta a inquinare: la frattura tra detto e fatto genera una reazione emotiva di tradimento.
Non è cattiveria del pubblico; è come il nostro cervello è cablato.
La fiducia arriva a piedi e scappa a cavallo, recita un detto: oggi è più vero che mai. Più della metà dei consumatori dichiara che se un brand tradisce la loro fiducia una volta, non gli darà mai più una seconda chance.
Siamo diventati meno indulgenti di un tempo, forse, ma anche perché sappiamo di avere alternative e soprattutto odiamo sentirci ingannati.
C’è poi un altro elemento nuovo: la personalizzazione e l’empatia.
Negli anni ’80 la comunicazione era uguale per tutti; oggi i consumatori vogliono sentirsi capiti e considerati come individui. La fiducia si costruisce anche mostrando empatia autentica: il brand deve saper ascoltare, rispondere, adattarsi alle esigenze del suo pubblico.
Secondo un recente report, il 76% dei consumatori afferma che per fidarsi di un’azienda è importante sentirla vicina, in grado di vedere le cose dal punto di vista del cliente e di capire davvero le sue frustrazioni.
In pratica, non basta più dire “il cliente al primo posto” su un cartellone; bisogna dimostrarlo con piccole grandi attenzioni nel customer journey.
Dal chatbot che risolve gentilmente un problema alle scuse sincere e trasparenti se avviene un disservizio: ogni gesto empatico rafforza il legame, ogni indifferenza lo corrode.
Oggi la fiducia in un brand è una costruzione delicata, multi-sensoriale e multi-dimensionale. Richiede coerenza assoluta tra chi il brand dice di essere e ciò che il brand in concreto è, momento per momento, su ogni canale e interazione. Richiede di ingaggiare il cervello del pubblico non solo con belle storie, ma con esperienze che provano la veridicità di quelle storie a livello emotivo e perfino fisico. Richiede, infine, di instaurare un rapporto genuino, quasi “umano”, con le persone: fatto di ascolto, rispetto, valori praticati e non solo enunciati.
La buona notizia è che quando questo accade – quando i segnali sono tutti allineati e sinceri – il premio è grande: lo abbiamo visto, il cervello ricompensa la coerenza con la fiducia, con la stessa chimica positiva di un’amicizia o di un amore. A quel punto il brand entra davvero, e a lungo, nella vita del suo cliente.
III. Oltre lo storytelling: progettare la fiducia
Come riuscire, dunque, in questa impresa quasi ingegneristica di costruire fiducia oggi? La risposta sta in un cambio di paradigma: passare dal pensare alla fiducia come qualcosa da ottenere con un buon racconto, al concepirla come qualcosa da progettare consapevolmente dentro ogni aspetto del brand.
Progettare la fiducia significa considerarla un vero e proprio output del nostro branding e lavorare a ritroso su tutti gli input che la generano.
In altre parole, la fiducia è il risultato di una serie di scelte strategiche e operative coerenti, allineate con il funzionamento della mente umana.
Proviamo a scomporre questo concetto in elementi chiave, quasi fossero i pilastri progettuali su cui edificare un brand affidabile:
- Coerenza totale: la coerenza non è uno slogan, è un metodo. Ogni punto di contatto con il pubblico deve “suonare” la stessa melodia di fondo. Dal logo al tono di voce del servizio clienti, dall’esperienza d’acquisto online al design di uno store fisico, il brand deve esprimere gli stessi valori e personalità senza contraddizioni. Se il brand fosse una persona, dovrebbe essere sempre se stessa. Questa coesione sensoriale crea nel cervello uno schema riconoscibile: il cliente sa cosa aspettarsi e, trovandolo ogni volta confermato, si rilassa. La chiarezza e la consistenza generano fiducia – così come nella vita ci fidiamo di chi è costante e prevedibile nelle sue reazioni;
- Autenticità e prove concrete: negli anni ’80 bastava la patina; oggi conta la sostanza. Authenticity is key, direbbero gli anglosassoni. Ciò significa allineare quello che il brand promette con quello che effettivamente fa. Se un’azienda proclama valori green, deve investire davvero in pratiche sostenibili e comunicarne i risultati con trasparenza (non in modo autoreferenziale, ma concreto). Se il vantaggio di un prodotto è la qualità artigianale, il consumatore vuole toccarla con mano: materiali, dettagli, storie vere di chi produce. Ogni promessa va mantenuta, e possibilmente dimostrata con evidenze. Progettare fiducia implica inserire, nel design del brand, momenti e modi in cui le persone possano verificare da sé l’affidabilità: periodi di prova senza rischio, garanzie solide, testimonianze indipendenti. “Don’t tell me, show me” – non dirmelo, mostramelo – è la regola aurea. In un mondo di pubblicità patinate, sorprende di più l’umiltà di ammettere un errore o di raccontare un retroscena autentico, perché questo comunica onestà. E l’onestà, alla lunga, paga sempre in termini di fiducia;
- Empatia e coinvolgimento: un brand che sa creare relazioni sarà percepito come più affidabile. Il progetto della fiducia include strumenti di ascolto del cliente (dalle survey alle interazioni social) e risposte personalizzate. Coinvolgere il pubblico nella narrazione del brand – ad esempio condividendo le storie autentiche dei clienti, o co-creando prodotti con la community – fa sentire le persone parte di qualcosa e non mere destinatarie di messaggi commerciali. Questo senso di comunità alimenta la fiducia perché riduce la distanza percepita tra “noi” (i clienti) e “loro” (l’azienda). Inoltre, dimostra che il brand ha a cuore il feedback e i bisogni reali. Progettare fiducia significa anche disegnare un’esperienza dove il cliente si senta accolto e rispettato, non manipolato. Un esempio virtuoso sono quei marchi che, di fronte a una crisi (si pensi a un prodotto difettoso), coinvolgono subito i clienti con comunicazioni trasparenti, si scusano sinceramente e offrono soluzioni: così trasformano un potenziale tradimento in un’occasione per rafforzare la fiducia, mostrando empatia e responsabilità.
Progettare la fiducia” vuol dire adottare una mentalità di lungo periodo. La fiducia si costruisce giorno dopo giorno, interazione dopo interazione, un mattoncino alla volta.
Non è un picco da raggiungere con una campagna spettacolare per poi passare oltre; è piuttosto un codice da implementare nel DNA dell’azienda.
Ogni decisione strategica dovrebbe farsi la domanda: questo rafforza o indebolisce la fiducia dei nostri clienti?
Dall’introduzione di una nuova funzionalità al modo in cui rispondiamo a una recensione negativa, tutto conta.
Donald Draper, il geniale pubblicitario di Mad Men, sapeva creare magie con le parole e le emozioni (celebre il suo discorso sulla “nostalgia” come “dolore di un vecchio ricordo” per vendere il proiettore Carousel).
Oggi probabilmente Draper direbbe: ”Se vuoi che credano alle tue parole, assicurati che ogni tuo gesto le confermi”.
È questa la chiarezza strategica necessaria: non c’è messaggio potente che tenga se l’esperienza non lo sostiene. Al contrario, quando progetto coerenza e sincerità in ogni dettaglio, non ho nemmeno bisogno di gridare “fidati di me” – sarà il cliente stesso a sussurrarlo, pian piano, ogni volta che sceglie di ritornare.
Il brand da mito a realtà
Siamo partiti dagli anni ’80, un’epoca in cui bastava un’icona luminosa e uno spot ben fatto per far innamorare il pubblico, e siamo approdati in un presente iper-connesso dove la fiducia è un delicato mosaico da comporre con pazienza e intelligenza.
Quello che una volta si costruiva principalmente con l’immaginario (il mito del brand), oggi si costruisce con l’esperienza (la realtà del brand).
Non si tratta di dire che lo storytelling non serva più – le storie restano potenti, perché parlano alla nostra parte emotiva e creano significato. Ma da sole non bastano. La storia che un brand racconta deve essere sostenuta dalla storia che il cliente vive attraverso quel brand. In fondo, è come in ogni relazione: le parole creano possibilità, ma sono i fatti a creare fiducia.
In un’epoca di post-verità e di consumatori disincantati, la vera rivoluzione è tornare ai fondamentali: mantieni le promesse, sii ciò che dici di essere, abbi a cuore le persone. La fiducia seguirà.
Costruire fiducia in un brand, oggi più che mai, è un atto di progettazione strategica e amore per il dettaglio. Richiede visione – la visione di chi sa che ogni interazione è un mattone – e umiltà – l’umiltà di chi sa che la fiducia non gli è dovuta, ma va guadagnata in ogni istante.
Progettare la fiducia, più che raccontarla, è la sfida dei nostri tempi. Chi saprà raccoglierla vedrà i frutti: clienti che non sono più semplici acquirenti, ma veri alleati e sostenitori del brand.
Cosa ancor più importante, un brand che sarà ricordato non solo per ciò che vende, ma per quel legame di credibilità e rispetto che avrà saputo coltivare.
La regola d’oro potrebbe suonare così: un marchio non dovrebbe mai dover chiedere fiducia – dovrebbe mettere il proprio pubblico nelle condizioni di concederla naturalmente. Fidarsi di un brand, dopotutto, è come fidarsi di una persona: avviene quando riconosciamo in esso una coerenza e una sincerità che parlano al nostro cervello e al nostro cuore. Come recitava una vecchia pubblicità di quegli anni lontani, “fidati” – ma oggi possiamo aggiungere: fidati, perché te lo sei meritato.