“Standing in the door of the Pink Flamingo crying in the rain…”
Con questo verso – uno dei migliori versi di apertura di sempre – i Soft Cell spalancano le porte di un mondo crepuscolare, decadente e al tempo stesso infinitamente umano.
Say Hello, Wave Goodbye non è soltanto il terzo singolo dall’epocale album NSEC dei Soft Cell (Non-Stop Erotic Cabaret), né semplicemente la sorella malinconica del classico della disco nuziale Tainted Love. È una dichiarazione, un congedo, un’ultima stretta di mano con lo sguardo basso e i neon che tremano in fondo alla Brewer Street.
Nel cuore di Soho, Marc Almond – giacca e cravatta, sguardo spezzato, voce che graffia la seta – racconta l’addio più dolce e disperato degli anni ’80. Lo fa con il cocktail già sciolto tra le dita, la notte che si piega su se stessa e la nostalgia che sa di fumo e eyeliner.
Come dichiarò in un’intervista: “non volevo solo una canzone d’amore: volevo una canzone sull’orgoglio, sull’identità, sul dire basta“.
San Valentino al contrario

Non è un caso se Say Hello, Wave Goodbye raggiunse il terzo posto nelle classifiche del Regno Unito la settimana iniziata il 14 febbraio 1982. Una perfetta anti-ballad per un San Valentino di rotture più che di promesse, per chi saluta senza rancore ma non senza ferite.
La canzone è lenta ma non languida, sintetica ma non fredda. È malinconia incastonata nei pixel di un synth anni ’80, una torch song elettronica che sembra essere cantata con un fazzoletto tra le mani e le spalle dritte.
“We tried to make it work, you in a cocktail skirt and me in a suit, but it just wasn’t me.”
C’è qui tutta la forza di chi ha provato a rientrare nei ruoli prestabiliti, cocktail e giacca e cravatta, solo per scoprire che l’amore, quando recita, muore.
Dal telo al cuore: una scoperta fuori tempo
Non sono mai stato al Pink Flamingo, eppure mi immagino esattamente com’era. Lo so perché, invece, sono stato al Diagonal Loft Club di Forlì, dove col mio gruppo Tiny Tide ho suonato decine di volte e messo musica da DJ.
In quel periodo d’oro, le lezioni del rock del professore Luigi Bertaccini erano il nostro rito laico.
Ricordo benissimo quando Say Hello, Wave Goodbye apparve non su MTV o su un tubo catodico, ma proiettata su un telo bianco durante una di quelle serate.
E proprio lì, senza cornici o filtri, quel video malinconico pervaso di pioggia mi entrò sotto pelle. Forse perché non me lo aspettavo. O forse perché era esattamente il momento giusto.
Quella sera – in mezzo a chiacchiere, birre e cd originali e masterizzati – capii che quella canzone era una lettera lasciata sotto il tergicristallo alla mia generazione, il presagio di un momento magico quanto effimero, per questo eterno.
Saint Junipero e l’eco dell’addio

Non è un caso che Say Hello, Wave Goodbye venga ripresa nell’episodio “San Junipero” di Black Mirror.
In un futuro digitale che simula la nostalgia meglio della realtà, la canzone viene usata per marcare un addio, un momento in cui i due protagonisti si separano – forse per sempre – all’interno di un mondo fittizio.
Il brano diventa quindi una colonna sonora per addii fuori dal tempo, digitali, eterni, sintetici.
L’ironia – o la profezia – è che i Soft Cell stessi non immaginavano che la loro musica sarebbe sopravvissuta proprio nei luoghi dove la memoria diventa file. Ma forse Almond l’aveva previsto, come ha raccontato in un’intervista del 1993:
“I never wanted Soft Cell to just be pop. I wanted it to hurt a little. Like a bruise you press.”
Oltre il synth-pop: un’eredità emotiva

Quando si parla dei Soft Cell, si rischia sempre di cadere nella trappola del revivalist superficiale: quella tendenza a considerare la loro musica come mera estetica anni ’80, tutta synth, eyeliner e pose da club.
Un duo da hit-parade, magari un po’ torbido, ma fondamentalmente incasellabile in uno scaffale chiamato synth-pop nostalgico.
Ma Say Hello, Wave Goodbye – e in fondo tutta la loro poetica – rifiuta quella definizione.
Il vero cuore dei Soft Cell non batte in 4/4, ma in 6/8 emozionale. È una musica che non ti chiede di ballare, ma di restare fermo e ascoltare cosa ti succede dentro.
Più torch song che electro hit, più cabaret berlinese filtrato da un neon rotto che elettronica da discoteca.
I Soft Cell non sono figli di Kraftwerk, ma fratellastri segreti di Jacques Brel e Scott Walker, messi al mondo in una notte di pioggia a Soho mentre al suono del juke-box di un bar che sta per chiudere.
“Say goodbye with your head held high”
Questa eredità emotiva è stata raccolta più dai figli malinconici del post-punk che dai fratelli festaioli dell’Italo disco.
Senza Say Hello, Wave Goodbye, The Smiths avrebbero forse suonato uguale, ma non avrebbero pianto allo stesso modo.
I Depeche Mode non avrebbero imparato a dosare l’ambiguità e forse Thom Yorke non avrebbe trovato il coraggio di sussurrare “I’m not here, this isn’t happening” con la stessa dignità spettrale di Almond.
In una rara intervista a The Quietus, Almond dichiarò:
“Say Hello wasn’t written for the charts. It was written for the mirror. For those moments when you stare at yourself and finally tell the truth.”
È questo che differenzia Say Hello, Wave Goodbye da molte delle sue contemporanee: non ti intrattiene, ti riflette. Come uno specchio incrinato in cui, per un attimo, riesci a vedere chi sei davvero. Quando la musica fa questo, smette di appartenere a un genere. Diventa memoria collettiva, una lacrima che torna al mare.
Saluta, piangi
In fondo, Say Hello, Wave Goodbye non è una canzone triste. È una canzone vera. Per questo continua a riapparire nei momenti in cui non abbiamo le parole, ma solo una melodia da ricordare. Che sia una pista da ballo, una sala conferenze, un telo bianco o una strada di provincia, quella voce tornerà.
“Take your hands off me / I don’t belong to you, you see.”
Forse è qui il vero testamento dei Soft Cell. Non un addio, ma un’educazione sentimentale alla sopravvivenza. Un’arte del commiato che non ci lascia mai davvero.
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Say Hello, Wave Goodbye ti ha fatto tremare qualcosa dentro? Ecco altri brani per continuare il viaggio:
- “Torch” – Soft Cell
- “Atmosphere” – Joy Division
- “This Night Has Opened My Eyes” – The Smiths
- “John the Revelator” – Depeche Mode (live version)
- “On Some Faraway Beach” – Brian Eno
- “My Death” – Scott Walker
- “No Regrets” – The Walker Brothers
Una vecchia intervista ritrovata: Marc Almond tra Soft Cell, videogiochi e supereroi

Pochi giorni fa, rovistando tra le riviste impolverate in un mercatino dell’usato a Cesena, mi sono imbattuto in una copia sgualcita di Musica Più, datata aprile 1984.
In copertina, un giovanissimo Marc Almond, occhi pesanti di eyeliner, sguardo perso oltre la macchina fotografica.
Dentro, tra recensioni di dischi ormai scomparsi e un servizio su un nuovo fenomeno chiamato Spandau Ballet, ho trovato questa intervista sorprendente. La riporto qui fedelmente, parola per parola, come se fosse un documento di un’epoca che si credeva finita, ma che in realtà respira ancora, in qualche angolo buio illuminato da un neon rosa.
Intervista a Marc Almond
(da Musica Più, aprile 1983. A cura di Silvia Berti.)
M+: Marc, “Say Hello, Wave Goodbye” ha un titolo che ricorda molto “Hello, Goodbye” dei Beatles. È stato un riferimento voluto?
Marc Almond:
(Ride) No, non volutamente. Amo i Beatles, ma Hello, Goodbye era troppo allegra per essere mia. La nostra è una canzone sull’addio, sulla dignità, sul rifiuto di compromettersi. Se avessi voluto un riferimento ai Beatles, sarebbe stato più vicino a She’s Leaving Home o Eleanor Rigby. Ma mi piace il fatto che entrambi i titoli contengano un gesto: say e wave. Come se l’amore fosse una stazione ferroviaria.
M+: Hai mai giocato ai videogiochi? Hai un preferito?
Marc Almond:
(Ride ancora) Ho provato Space Invaders e Frogger, ma non ho molta pazienza. Mi piacciono le immagini, i suoni… ma mi perdo. Credo che se dovessi scegliere un videogioco in cui vivere sarebbe uno che non è ancora stato inventato: qualcosa di decadente, gotico, dove puoi vagare tra stanze vuote e lasciare messaggi. Come un Cabaret elettronico. Ma se devo scegliere: Tempest, per la musica. È lisergico.
M+: Conosci l’Italia? Sei mai stato a Forlì?
Marc Almond:
Non ancora, ma me ne hanno parlato. Una piccola città con un cuore grande, a quanto pare. Mi piace suonare nei luoghi che non sono al centro del mondo. Ci trovi più verità, meno trucco. Spero di venirci presto. Magari con un set più intimo. Say Hello, Wave Goodbye lì suonerebbe benissimo, lo sento.
M+: Leggi fumetti? Conosci gli Avengers? E Doctor Doom?
Marc Almond:
Certo. Da ragazzino leggevo Alan Moore, e anche le cose Marvel, sì. Doctor Doom è affascinante. Il suo romanticismo tragico lo rende quasi un personaggio shakespeariano. Tra Marvel e DC… difficile. DC ha Batman, che è elegante e disperato come me. Ma Marvel ha più psicologia. Forse sto con Marvel, ma di poco.
M+: Vai spesso al cinema? E cosa ne pensi dei computer?
Marc Almond:
Il cinema mi salva. Quando non riesco a scrivere, guardo film. Ultimamente mi piace David Lynch. I computer? Non li capisco ancora, ma mi affascinano. Come se fossero specchi senza anima, che però riflettono molto di ciò che siamo. Ho paura che ci stiamo preparando a vivere lì dentro, a ballare dentro le loro stanze vuote.
M+: Cosa ascolti quando sei solo?
Marc Almond:
Jacques Brel, Scott Walker, Marc Bolan. Musica che lacera, ma con grazia. A volte ascolto anche dischi italiani. Battiato, ad esempio. Mi piace la sua mente obliqua. È come ascoltare un filosofo che ha fatto pace con l’aldilà.
M+: Hai paura di invecchiare come artista?
Marc Almond:
Tutti hanno paura di sparire. Ma a me piace l’idea di diventare un fantasma. Non uno che spaventa, ma uno che osserva, che sussurra. Vorrei che le mie canzoni si ascoltassero tra cento anni come si sente un vecchio amore quando entra un profumo nella stanza. Non c’è bisogno che resti Marc Almond. Basta che resti una scia.
Post Scriptum
Rileggere questa intervista oggi è come aprire un baule da cui esce polvere luminosa. Fa sorridere vedere Almond parlare di computer e citare Batman, ma è altrettanto toccante notare come tutto, in lui, fosse già lì: l’eleganza del malinconico, la consapevolezza dell’effimero, l’arte dell’addio.
Say Hello, Wave Goodbye, con il suo passo lento e il suo cuore aperto, continua a essere la canzone perfetta per chi arriva e per chi se ne va. Dalla vita, da un amore o anche solo da una serata. Bella o brutta che sia, comunque da ricordare.