Viviamo in un tempo saturo di “nonvità”, in cui la nostalgia si offre come merce. Quando il presente si fa troppo angusto e l’equilibrio geopolitico si sbriciola sotto il peso delle guerre, delle crisi economiche e dell’incertezza diffusa, l’infanzia torna a farsi rifugio.
Non l’infanzia reale, beninteso, ma quella figurata, addomesticata, masticabile: l’infanzia mediata dai cartoni animati, dalle bambole, dai piccoli peluche colorati che un tempo popolavano scaffali e sogni.
In questo scenario si colloca il nuovo trend di Labubu, un personaggio che si aggira a metà tra l’elfo e la creatura da sogno, una sorta di plushie con gli occhi spalancati e l’espressione da “CryBaby” sempre sul punto di sciogliersi in lacrime o in incanto. Per comprendere davvero il senso del suo successo planetario e perché sia diventato un tormentone social e da collezione, è necessario risalire alla fonte: i Moncicì.
Moncicì: l’innocenza capitalizzata
Il Moncicci (o Monchhichi, nella dizione originale giapponese) è un animale difficile da definire, un ibrido tra una scimmietta e un bambino, con mani prensili, pollici in bocca e una pelliccia sintetica irresistibile.
Creato nel 1974 da Koichi Sekiguchi per la compagnia giapponese Sekiguchi Corporation, questo piccolo peluche colorato trovò la sua massima espressione pop negli anni ’80, quando l’Occidente, Italia inclusa, si innamorò del suo candore postmoderno.
Il Moncicci era tutto ciò che la moda infantile voleva: rassicurante ma esotico, giapponese ma adattabile al gusto italiano, tenero ma vendibile. Fu un prodotto globale prima che la parola “globalizzazione” diventasse patrimonio dell’economia e delle scienze sociali.
La sua popolarità fu alimentata da cartoni animati, pubblicità martellanti e una varietà infinita di versioni: con vestiti, con sonagli, con accessori da attaccare alla borsa.
Il Moncicci non era solo un gioco: era un dispositivo culturale, un codice d’appartenenza. Chi ne possedeva uno entrava in un universo riconoscibile, fatto di piccoli rituali e affetti sintetici. Era l’infanzia resa feticcio in un mondo che già iniziava a scivolare verso l’accelerazione iper-consumistica.
Labubu: l’erede inquieto
Nel 2024, in pieno revival estetico anni ’80 e ’90, fa capolino Labubu. Sembra arrivare da un bosco incantato, con la sua chioma selvaggia e gli occhi spiritati. Eppure è figlio legittimo del marketing più raffinato: è prodotto da Pop Mart, una compagnia cinese specializzata in designer toys e blind box.
Labubu non si compra: si rincorre. Ogni uscita è sold out, ogni nuova serie è un evento.
Il personaggio è stato creato dall’artista hongkonghese Kasing Lung, illustratore che ha fatto della malinconia illustrata una forma d’arte.
La storia di Kasing parte dalla grafica underground e arriva alla cultura mainstream passando attraverso il filtro della produzione asiatica di massa.
I suoi personaggi, tra cui The Monsters, sono diventati oggetti di culto, unendo l’estetica kawaii giapponese con un gusto più gotico e perturbante.

I Labubu si ispirano a creature del folklore e a fiabe oscure, ma parlano direttamente alla società post-pandemica: sono fragili, un po’ alienati, imperfetti, come noi.
I Labudu sono la versione 2.0 dei Moncicì: non più simboli di una innocenza presunta, ma icone di una fragilità lucida, quasi rivendicata. Mentre i bambini degli anni ’80 stringevano il loro Moncicci con ingenua tenerezza, i trentenni e quarantenni di oggi espongono Labubu come trofei di un tempo perduto.
Economia della nostalgia e feticismo da scaffale

Di che marca sono i Labubu? I Laubub sono una linea della Pop Mart, una vera e propria macchina da guerra del collezionismo emozionale.
Ma il prezzo? I Labubu originali si muovono tra i 15 e i 30 euro in fase di lancio, per poi moltiplicare il loro valore nel mercato secondario, dove alcune edizioni limitate possono superare i 100 euro.
Dove posso acquistare un Labubu? Online, su siti come PopsPlanet.it o su piattaforme di collezionismo, ma occorre agire in fretta: la disponibilità è sempre limitata, la corsa all’acquisto frenetica.
Il caso Labubu non è isolato: si inserisce in un contesto economico e culturale in cui il feticismo per l’infanzia diventa una forma di investimento simbolico.
In un momento in cui la crisi economica corrode certezze e le prospettive si fanno sempre più nebulose, acquistare un peluche può diventare un atto di resistenza: un modo per raccontarsi che qualcosa di tenero, piccolo, controllabile, ancora esiste.
Come i Moncicì, anche i Labubu si possono attaccare alla borsa, collezionare, fotografare, mostrare sui social. La differenza è che oggi la bambola non serve più a giocare, ma a mostrare.
In un mondo dominato dall’immagine, il plushie è diventato uno statement. Le celebrity non stanno a guardare: molte influencer e artisti mostrano Labubu nelle loro stories come una dichiarazione di gusto.
Perché Labubu è il nuovo Moncicci
- Entrambi sono piccoli peluche colorati, progettati per essere irresistibili;
- I Moncicì erano giapponesi, i Labubu cinesi: stessa area culturale, nuovo contesto economico;
- Labubu è un elfo fragile, mentre il Moncicci era una scimmietta sorridente;
- I Moncicì nascevano per i bambini, Labubu per adulti nostalgici;
- Entrambi sono diventati tormentoni in tempi di incertezza globale;
- Labubu è legato alla Pop Mart, brand che crea serie in edizione limitata;
- I Moncicì si acquistavano nei negozi di giocattoli, i Labubu solo online o in blind box;
- Il collezionismo di Labubu è più elitario e digitale;
- Labubu è stato creato da Kasing Lung, artista hongkonghese con background underground;
- Entrambi rappresentano la fuga in un mondo dove l’economia delle emozioni domina la produzione.
L’infanzia come specchio del presente

Il ritorno di un peluche può sembrare una frivolezza, ma in realtà è un sintomo. I Moncicì degli anni ’80 e i Labubu di oggi non sono solo prodotti, sono segni del tempo.
Il primo era figlio di una modernità ingenua e ottimista, il secondo nasce in un’epoca di postmodernità disillusa e ultra-connessa. Entrambi, in modi diversi, raccontano la stessa cosa: il bisogno di trovare nel piccolo e nel tenero un argine contro l’inquietudine del mondo.
Labubu non è soltanto un elfo con i dentoni, ma la reincarnazione pop della vulnerabilità. Come i Moncicì trent’anni fa, è qui per ricordarci che anche un oggetto minuscolo può portarci a riconsiderare il significato stesso di “moda” e il ruolo dell’infanzia nell’economia del desiderio.
Attaccatelo pure alla vostra borsa, condividetelo, fotografatelo, ma non dimenticate: ogni Labubu è un piccolo rito per placare un grande vuoto.