Nel 1984 ero un bambino. Uno di quelli fortunati abbastanza da avere un piccolo televisore tutto per sé, in camera, incastonato come un cubo Borg tra il cesto dei giochi e una lampada vintage.
Le trasmissioni iniziavano tardi, i canali erano pochi, ma io attendevo la domenica mattina su Rete4 come si aspetta la messa in processione: dopo i titoli scorrevoli delle trasmissioni della giornata (simili a un prologo di Star Wars con meno effetti speciali), arrivava il momento mistico.
Prima un cartone animato bizzarro su una giraffa che girava il mondo cantando come una soprano, alcune sequenze di Guerre Stellari (appunto) poi — come un’apparizione — il videoclip di Radio Ga Ga.
Non sapevo ancora chi fossero quei quattro tizi in bianco e nero alle prese con zazzere, baffi e chitarre elettriche di gomma, ma quella clip distopica in stile Metropolis mi incollava allo schermo. Fu il mio primo incontro con i Queen. Fu un’epifania. Cosa combinavano questi bizzarri eroi musicali nel 1984?
I Queen a Sanremo
Nel 1984, il Festival di Sanremo stava cercando disperatamente di rifarsi il look. Tra lustrini e playback, vecchie cariatidi della canzone italiana e giovani meteore, successe qualcosa che avrebbe scolpito quell’edizione nella storia della musica popolare: arrivarono i Queen.
Salirono sul palco dello storico Teatro Ariston per presentare Radio Ga Ga. Il playback, per loro, era come un cappio elegante: accettarono a denti stretti, ma con evidente ironia.
Si rifiutarono di fingere in modo professionale. Freddie, con un microfono staccato, non ci provò neanche a fare finta di cantare, mentre Brian agitava la chitarra come un totem pagano. Fu una sterile provocazione? Certo. Ma anche una fascinazione mistica a cui l’Italia non era preparata.
Il pubblico italiano, abituato alla compostezza di cantautori e melodie rassicuranti, fu travolto da una performance tanto breve quanto sovversiva.
Mentre gli Alunni del Sole cantavano il loro cuore e Alice ammaliava il pubblico con il suo Messaggio, i Queen lasciavano una cicatrice luminosa sulla scena sanremese, scatenando il rock nel tempio della melodia.
The Works: capolavoro o monnezza?
Il 1984 fu anche l’anno dell’uscita di The Works, album che segnava il ritorno a un rock più classico, dopo le sperimentazioni elettroniche di Hot Space.
Era un disco contraddittorio e proprio per questo affascinante. Dentro ci trovavi la rabbia compressa di Tear It Up, i sintetizzatori nostalgici di Radio Ga Ga, la marzialità teatrale di Hammer to Fall e una malinconica ballata robotica come Machines (Or Back to Humans).
Un vero calderone culturale, un frullato di stili, un manifesto del Fenomeno Queen: mutevoli, sfuggenti, inafferrabili.
A Milano, poco dopo, ci fu il live. Non un concerto qualsiasi: un evento. Il pubblico italiano, assetato di rock internazionale, si riversò nel Palatrussardi (o “Palazzone”, come lo chiamavamo allora), trasformandolo in una cattedrale laica del suono.
Freddie Mercury danzava tra Another One Bites the Dust e Under Pressure, canzoni che erano ormai inni generazionali.
Brian May sollevava la sua Red Special come una spada laser, Roger Taylor pestava sulla batteria con una grazia da gladiatore.
Erano divinità pop, ma anche narratori di un’epoca dove la musica non era solo consumo, era cultura.
Critica da giornalino

“Dentro la nave i Queen con le loro canzoni, il loro rock pulito, […] in concerto il loro stile trova una riconferma in esecuzioni che non sfociano mai in virtuosismi […] naturalmente Freddie Mercury interpreta quello della star, ma è anche capace di ironizzare come quando […] entra in palcoscenico vestito da donna e successivamente con una parrucca di capelli lunghissimi in una sorta di parodia dell’heavy metal”
Ciao 2001 (settimanale musicale italiano), numero 38, 30 settembre 1984, Elia Perboni
Quell’anno i media italiani fecero fatica a interpretare l’irruzione dei Queen nel panorama nazionale.
Alcuni giornali gridarono allo scandalo per la loro ironia sul playback, altri si lanciarono in paragoni con i Beatles — paragoni inevitabili, ma forzati.
Dove i Fab Four erano stati diplomatici, i Queen erano stati esplosivi. Non cercavano approvazione: cercavano impatto.
Il giornalismo musicale italiano, spesso imbrigliato in un linguaggio altisonante e accademico, non sapeva bene come raccontarli.
I Queen erano troppo kitsch per essere presi sul serio, troppo geniali per essere ignorati. Erano allo stesso tempo capolavori musicali e carne da rotocalco.
Ecco il vero cortocircuito: la critica italiana, in bilico tra snobismo e fascinazione, fu costretta a rivedere i propri registri.
I Queen erano una sfida per tutti: per la musica, per la comunicazione, per la pubblicità (che nel frattempo iniziava a usare le loro canzoni come colonne sonore non autorizzate di uno stile di vita).
E intanto i boccia come me continuavano a guardare Radio Ga Ga ogni domenica mattina, sperando che il miracolo si ripetesse. Nella loro camera, con un televisore piccolo e il cuore pieno di sogni sintetici.