There’s no action, there’s no action
Every time I phone you, I just want to put you downElvis Costello
Non si tratta di un mito da reduci. C’era un’epoca in cui si cercava una cabina telefonica per comunicare qualcosa di urgente.
L’ansia non nasceva da una notifica luminosa, ma dalla difficoltà di trovare una gettoniera funzionante e una moneta da cento lire nelle tasche.
Negli anni ’80, Il mondo del lavoro si muoveva con la lentezza severa della carta carbone e con l’imprevedibilità di un fax Olivetti. Era un lavoro vissuto e costruito, più che raccontato.
Oggi, immersi nella vetrina permanente dei social professionali, guardiamo indietro e scopriamo quanto sia cambiato il nostro modo di pensare alla fatica, all’ambizione, al successo. Forse con un sorriso amaro.
La discrezione come direttrice

Negli anni Ottanta il concetto di “visibilità” aveva un significato diverso. Costruire una carriera significava accumulare esperienza, affrontare le difficoltà senza proclami, attendere che la qualità del proprio operato parlasse da sé.
Un curriculum vitae dattiloscritto su carta uso bollo aveva più valore di un intero profilo costruito su slogan.
Il telefono grigio della SIP, l’agenda di pelle nera e il fax rumoroso erano strumenti di una comunicazione che puntava all’essenziale.
Anche il tempo seguiva un’altra grammatica. Oggi viviamo di istanti e istant reaction; allora vigeva l’attesa, la ponderazione, una costruzione lenta.
Si comprendeva facilmente che ogni edificio solido ha bisogno di fondamenta profonde e invisibili, che la vera forza non risiede nell’apparire ma nel reggere il peso delle giornate.
Essere affidabili come una Renault 5 in un inverno di nebbia era il massimo del riconoscimento sociale.
L’ansia dell’esposizione permanente

Oggi la discrezione è diventata sospetta. Chi non aggiorna costantemente il proprio profilo digitale appare inattivo, disinteressato, quasi colpevole.
Partecipare a una call equivale a celebrare un evento. Ogni traguardo, anche il più minimo, deve essere documentato come se fosse il primo passo dell’uomo sulla Luna.
Il lessico stesso ha subito una profonda mutazione: parole come “resilienza”, “visionarietà” e “leadership” popolano comunicazioni che una volta si sarebbero limitate a una formula di cortesia.
Viviamo una nuova forma di ansia: quella dell’esposizione continua. Se nel passato la preoccupazione era quella di essere dimenticati nel tempo lungo della vita, oggi temiamo di essere dimenticati nello spazio breve di un feed.
La visibilità ha sostituito la consistenza. Non importa più cosa si fa, ma quanto spesso lo si mostra.
Un tempo si poteva costruire una vita senza testimoni. Oggi, senza pubblico, si teme di non esistere affatto.
Nostalgia dell’autenticità

Chi è cresciuto tra i gettoni telefonici, i primi rudimentali Commodore 64 e le lettere battute a macchina conserva una memoria diversa del lavoro.
Una memoria fatta di errori corretti con la penna rossa, di attese interminabili per una risposta, di sogni che avevano il sapore tangibile di un catalogo Vestro consultato la sera.
La carriera era un cammino solitario e silenzioso, non una staffetta pubblica. Ogni avanzamento era intimo, spesso invisibile, come le radici di un albero che crescono sotto terra.
Nessuno avrebbe pensato di inviare aggiornamenti quotidiani sull’avanzamento di una relazione pubblicandoli sul trafiletto di un giornale.
C’era una consapevolezza antica, quasi dimenticata oggi: l’autenticità non ha bisogno di essere fotografata. Si riconosce da sola, come si riconosce un volto amico nella folla, senza bisogno di proclami.
Sempre occupato

Una cabina telefonica abbandonata in un parcheggio periferico parla ancora di noi.
Non emette suoni, non manda notifiche, non acceca con luci intermittenti. È lì, silenziosa, come testimonianza muta di un tempo in cui comunicare significava compiere uno sforzo fisico e reale.
Oggi che ogni gesto rischia di essere spettacolarizzato, il silenzio di quella cabina ci insegna qualcosa di diverso.
Ci ricorda che esiste una comunicazione che non chiede conferme, una presenza che non dipende da un’approvazione immediata. Forse ci vuole insegnare in modo sobrio un’antica verità: non tutto deve essere ascoltato per avere valore.
In fondo, anche un telefono che suona occupato racconta una storia. Non è un segno di assenza, ma di esistenza: altrove, in un’altra conversazione, in un altro tempo.
Il vero coraggio oggi non è essere sempre pronti a farsi sentire, ma impegnarsi a restare occupati a vivere, mentre il mondo continua a squillare a vuoto.