C’era un tempo in cui MTV non era un’accozzaglia di reality show e teen drama, ma un oracolo sonoro e visivo che ti lanciava contro il futuro con la delicatezza di una bomba.
Ricordo con precisione – come un’epifania -la prima volta che vidi Once in a Lifetime dei Talking Heads. David Byrne ballava come un funzionario sotto anfetamine nel mezzo di un crollo metafisico, e io – adolescente sperso nel pomeriggio di un’Italia qualunque standard degli anni ’80 – fissavo quel televisore che cercava di spaccare attonito e pietrificato.
C’era qualcosa di bruciante in quella musica, una domanda esistenziale che ballava il groove.
Oggi, a distanza di decenni, Remain in Light resta ancora lì, come una luce che non accenna a spegnersi.
Ma è davvero il miglior album dei Talking Heads? Cosa lo rende così figo? E da dove arriva quel titolo, Remain in Light? Un attimo, non spingete, proviamo a rispondere… ma prima scansatevi un po’ e facciamo un passo indietro.
Più canzoni su case e cibo: l’inizio di una rivoluzione

Prima di Remain in Light c’era More Songs About Building And Foods (1978), il primo disco prodotto da Brian Eno per la band newyorkese.
Quel titolo ironico, dissacrante, era già un indizio: i Talking Heads non volevano raccontare storie d’amore o ribellione, ma il mondo reale, i palazzi, i pasti, la frustrazione urbana. Eno – ex Roxy Music e guru dell’elettronica ambient – vide in loro qualcosa di più: una tribù intellettuale pronta a distruggere il rock per ricostruirlo con gli strumenti dell’arte contemporanea, dell’Africa, dell’alienazione postmoderna.
L’ispirazione africana e la dissoluzione dell’ego

Nel 1980 nasce Remain in Light, frutto di un processo quasi collettivo, dove i confini tra musicisti e produttore si dissolvono. Brian Eno, più sciamano che tecnico del suono, impone un metodo circolare: jam session ossessive, ispirazione afrobeat, loop, sovraincisioni, ritmi policentrici.
La band si ritira alle Bahamas, ma non per il sole: vogliono registrare in uno spazio dove la musica possa diventare trance. L’obiettivo? Cancellare il songwriting individuale, fondere tutto in un’unica entità ritmica, pulsante, tribale.
David Byrne, solitamente egocentrico ed egoaccentrante, accetta la sfida e abbraccia una scrittura automatica, fatta di frasi-slogan, fratture linguistiche, illuminazioni psichedeliche da tubo catodico.
Il risultato? Un disco che pare suonato da una civiltà aliena che ha appena scoperto James Brown e la filosofia zen nello stesso momento.
Tracklist di Remain in Light:
- Born Under Punches (The Heat Goes On) – 5:46 (Byrne, Eno, Talking Heads)
- Crosseyed and Painless – 4:45 (Byrne, Eno, Talking Heads)
- The Great Curve – 6:26 (Byrne, Eno, Talking Heads)
- Once in a Lifetime – 4:19 (Byrne, Eno, Talking Heads)
- Houses in Motion – 4:33 (Byrne, Eno, Talking Heads)
- Seen and Not Seen – 3:20 (Byrne, Talking Heads)
- Listening Wind – 4:42 (Byrne, Talking Heads)
- The Overload – 6:00 (Byrne, Talking Heads)
Cosa rende figo Remain in Light?
Remain in Light dei Talking Heads è un album che ha previsto il futuro. Pre-internet, pre-globalizzazione, pre-loop digitali. Un’opera che suona ancora nuova, eppure ha più di quarant’anni. La fusione fra funk, elettronica, tribalismo, spoken word e paranoia urbana lo rende un unicum.
La produzione è ipnotica, il ritmo è il vero protagonista: non c’è un singolo assolo di chitarra classico, eppure il corpo è sempre costretto a muoversi.
E poi c’è Once in a Lifetime. Chi si è imbattuto in una delle sue reincarnazioni musicali in modo distratto si è post ingenuamente questa domanda: ma chi canta la versione originale? David Byrne, ovviamente, anche se la voce sembra venire da una conferenza motivazionale diffusa da un megafono da uno sgabuzzino spaziale.
Non siamo di fronte a una canzone, ma un esperimento mistico: il “super-mario-basso” e la batteria girano in loop, mentre Byrne si domanda all’improvviso chi cazzo sia, in che razza di luogo si trovi a vivere e perché tutto quello che gli appare familiare gli stia sfuggendo dalle mani. L’effetto è identico a quello di certe poesie zen: ti sussurra una verità enigmatica, ma colpisce come un bastone.
Remain in Light è davvero il miglior album dei Talking Heads?

Esiste solo una risposta breve, ed è sì. Ma con una postilla: è anche il meno “Talking Heads” di tutti, perché è il più collettivo, il più Eno, il più sperimentale.
Chi ama l’essenzialità di Talking Heads: 77 o l’eleganza pop di Speaking in Tongues potrebbe preferire altre fasi. Ma Remain in Light è il punto in cui la band diventa qualcosa di più grande di sé. È il loro White Album, il loro Kid A, il loro salto nel vuoto con atterraggio perfetto.
Perché si chiama Remain in Light?

Il titolo è una preghiera e una contraddizione. In un mondo sempre più complesso, buio, alienante, attirare l’attenzione è un atto di resistenza. Ma anche un’illusione: come restare in una stanza dove la luce cambia forma continuamente. È anche una citazione velata di un testo religioso, forse biblico, forse apocrifo. E come tutto l’album, è aperto all’interpretazione, come un mantra che ognuno deve recitare a modo proprio.
Non spegnere la luce…

Remain in Light è un disco che brucia e non si consuma. Anzi, sembra ringiovanire ogni volta che lo si ascolta.
Non è nostalgia, non è revival: è un album che parla al presente meglio di molti dischi contemporanei.
È bruciante, è strano, è ispirazione allo stato puro. Rimanere sotto i riflettori, oggi più che mai, è un atto rivoluzionario. Noi ci siamo arrivati solo ora, ma quegli alieni adrenalinici dei Talking Heads l’avevano già capito nel 1980.