C’è stato un tempo, in un secolo breve ma densamente popolato di meraviglie, in cui i bambini giocavano con macchine da gioco che sembravano uscite da un sogno di Asimov. O da una stanza segreta della NASA.
Era un’epoca in cui il futuro si accendeva con un clic, in salotto, tra mobili in formica e tappeti con motivi geometrici.
Tra queste macchine vi fu una meraviglia solitaria, un oggetto quasi alieno nel panorama dei giochi elettronici: il Vectrex.
Una console che non si collegava alla televisione, ma che era una televisione. O meglio, era un microcosmo a parte con uno schermo a tubo catodico capace di generare grafica vettoriale, un termine che evocava diagrammi di Newton più che delle partite a “Scramble”.
Ricordo bene quel primo incontro. Uno della nostra banda, figlio di un dentista, abitava proprio dirimpetto all’appartamento dei miei nonni, dove passavo gran parte del tempo.
Un giorno tornò a casa con una scatola nera e misteriosa: il Vectrex. Fino a quel momento il nostro universo ludico era fatto di bombette, corse in BMX e pallonate contro il muro.
Altro che tiri in porta. Quella console aprì un… portale! La versione chibi di me medesimo – che già allora si considerava un esperto conoscitore virtuale di videogiochi grazie a un prezioso catalogo illustrato – cominciò a valutare quale macchina fosse davvero superiore: il Vectrex, con il suo alieno avveniristico schermo vettoriale, o l’infinito e coloratissimo parco giochi dell’Intellivision.
Jay Smith e l’alchimia dell’immagine

Il Vectrex nacque dalla mente visionaria di Jay Smith, un ingegnere e inventore che già collaborava con Mattel Toys alla progettazione di accessori elettronici per giochi da tavolo e console.
Smith era un uomo che avrebbe potuto lavorare al progetto Apollo senza stonare: la sua comprensione della fisica elettronica era pari al suo intuito commerciale.
Fu lui a concepire una macchina autosufficiente, una console con un proprio schermo verticale integrato, come se volesse emanciparla dalla tirannia delle televisioni domestiche.
L’elemento distintivo del Vectrex era la grafica vettoriale. Invece di generare immagini per rasterizzazione, come facevano tutte le altre console, questa meraviglia tracciava linee luminose direttamente sullo schermo a tubo catodico.
Il risultato era un’estetica cruda e purissima, come un disegno di Vitruvio tracciato col laser. Era la stessa tecnologia impiegata nei simulatori della NASA, e pare che un prototipo simile fosse stato usato anche nei primi addestramenti per le missioni lunari.
Specifiche tecniche e sogni digitali

Il cuore pulsante del Vectrex era un processore Motorola 6809, uno dei più potenti dell’epoca tra quelli impiegati nei giochi elettronici.
Affiancato da un chip di supporto MOS 6502, il sistema era capace di operazioni a 16 bit, con due stack separati e la possibilità di effettuare la moltiplicazione in hardware, una rarità assoluta nel 1982. La macchina vantava anche un generatore audio a tre canali e un piccolo speaker incorporato, capace di emettere suoni sintetici dallo charme tutto retrò.
Lo schermo era un CRT monocromatico da 9 pollici, su cui si applicavano delle mascherine colorate (overlay) in plastica trasparente per simulare i colori. Un compromesso artigianale, certo, ma anche un gesto poetico: come colorare il mondo con l’immaginazione, come facevano gli antichi alchimisti con la pietra filosofale.
I giochi ufficiali e gli accessori del futuro
Sono state realizzate 28 cartucce ufficiali per Vectrex, ciascuna contenente un microcosmo diverso.
Tra i giochi più noti ricordiamo Scramble, Armor Attack, Star Castle e Mine Storm (quest’ultimo precaricato nella memoria della console). Ogni gioco sembrava pensato per sfruttare al massimo le potenzialità della grafica vettoriale, con risultati che, ancora oggi, conservano un fascino ipnotico.
Ma Vectrex non si fermò ai giochi: propose anche accessori degni della NASA. Tra questi la leggendaria penna ottica, che permetteva di disegnare direttamente sullo schermo, anticipando le tavolette grafiche di vent’anni.
E poi gli occhiali 3D, con un sistema di sincronizzazione meccanico che ruotava filtri polarizzati a ritmo col segnale video: un’idea così folle da risultare geniale, e oggi ricercatissima dai collezionisti.
Il marchio Vectrex fu distribuito con differenti etichette: GCE negli Stati Uniti, MB in Canada ed Europa, e Bandai in Giappone. Ogni regione conservava un’aura particolare, quasi un’identità culturale legata alla console, come se il Vectrex fosse anche un oggetto antropologico.
I rivali rasterizzati e il dilemma esistenziale

Mentre il Vectrex proponeva una visione minimalista e scientifica del videogioco, i suoi concorrenti – Atari 2600, ColecoVision, Intellivision – spingevano sul colore, sul movimento, sull’illusione della complessità. E qui si inseriva il mio personale dramma infantile: nella mia camera – fra le pagine dell’iconico catalogo illustrato – confrontavo specifiche tecniche e immagini promozionali, come un piccolo Kant alle prese con l’estetica del sublime.
Il Vectrex sembrava una navicella proveniente dalla Luna, l’Intellivision un luna park sotto acido. Quale scegliere? La poesia matematica della linea o l’esuberanza caotica del colore?
La mia scelta, lo confesso, fu spesso più teorica che pratica. Il Vectrex lo ammiravo, ma lo Intellivision lo desideravo. Forse perché in fondo la grafica vettoriale era troppo perfetta per il cuore infantile: ricordava i diagrammi del liceo più che le figurine Panini.
Fine di un’epoca e rinascita underground

La parabola commerciale del Vectrex fu breve. Lanciato nel 1982, fu travolto dal crash dei videogiochi del 1983 e ritirato poco dopo.
Troppo avanti per il mercato, troppo strano per le famiglie. Eppure, proprio per questo, oggi gode di una seconda vita.
Una comunità di sviluppatori indipendenti ha iniziato a creare nuove cartucce, emulatori, persino homebrew dotati di intelligenza artificiale vettoriale.
I produttori di giochi moderni guardano al Vectrex con rispetto quasi mistico. La sua architettura aperta, le specifiche tecniche documentate, la semplicità estrema che diventa potenza: tutti elementi che lo rendono un oggetto di culto tra i videogiocatori più raffinati.
If you believe…

Il Vectrex fu più di una console. Fu una dichiarazione d’intenti. In un mondo che già allora inseguiva l’iperrealismo e la saturazione visiva, scelse la sobrietà delle linee, la chiarezza della luce, la matematica come linguaggio dell’immaginazione. Come certi strumenti di laboratorio o certi haiku giapponesi, esprimeva molto con pochissimo.
Da bambino di provincia quale ero, con l’anima sospesa tra Catechismo e Festival dell’Umidità, appassionato di giochi elettronici e di storie, capii che anche la tecnologia poteva avere un’anima. Un’anima fatta di vettori luminosi, di sogni proiettati sul vetro di un tubo catodico, di pomeriggi trascorsi in un futuro immaginario e immaginato. La luce che mi illuminava per qualche partita il volto? Ci scommetto che veniva dalla Luna.