Questa che state per leggere non è una semplice Top 10, non è un esercizio di stile, non è una passeggiata tra vicoli nostalgici, non è una playlist da ascoltare con un groppone alla gola il sabato sera.
Questo articolo sarà invece un viaggio tenebroso nella discografia dei Cure degli Anni ’80, nella poesia decadente di una band britannica che ha attraversato il decennio più controverso del secolo scorso, trasformandolo invece in una lunga, incantata e inquietante cavalcata notturna.
Negli anni Ottanta, i Cure non si sono limitati a scrivere canzoni ad alto tasso di intrattenimento: hanno creato veri e propri mondi sonori, popolati da echi, frasi dissonanti, arpeggi di chitarra, riff di tastiere e una voce — quella di Robert Smith — capace di tenere insieme fede e disperazione, party funebre e febbre del sabato sera, apoteosi pop e minimalismo post-punk.
Questo elenco non è un elenco. È una dichiarazione d’intenti. È l’inizio di un disco che non finisce mai. È il tentativo di raccontare con la consapevolezza di chi li ha scoperti da giovane – turbato dai video di Close to Me e The Caterpillar, quasi visionari come Birthday dei Sugarcubes — e li ha riscoperti e celebrati da adulto, componendo perfino una canzone dedicata a loro (The Smiths & The Cure, con i miei Tiny Tide).
Ma ora bando alle ciance, spegnete le luci, indossate l’abito nero più figo che avete nell’armadio più piccino picciò e preparatevi a una bella passeggiata sonora tra le gemme più oscure e luminose di una band inglese che ha saputo raccontare l’insondabile.
1. A Forest – 1980, Seventeen Seconds (Fiction Records)
“The girl was never there / It’s always the same / I’m running towards nothing / Again and again and again and again…“
Una canzone che è come un sogno che si sta sgretolando, un inseguimento eterno nella nebbia dell’inconscio.
L’incipit strumentale si apre con un’atmosfera rarefatta, costruita sull’arpeggio di chitarra di Simon Gallup e le trame sintetiche che si dispiegano lentamente come un velo su un paesaggio inquieto.
Il basso pulsa come un battito d’ansia, mentre la voce di Robert Smith, filtrata e distante, sembra provenire da un altro mondo.
Tutto in A Forest dei Cure è sospeso tra presenza e assenza, tra speranza e spaesamento. La cavalcata notturna che il titolo evoca non ha una meta, solo un richiamo che si perde tra gli alberi.
Pubblicato nel 1980 su Seventeen Seconds, il brano segna un punto di svolta per la band britannica, imprimendo per la prima volta nella loro discografia quell’estetica tenebrosa e atmosferica che diventerà il loro marchio di fabbrica.
A Forest è il primo grande brano dei Cure che entra di diritto nelle scalette dei live, e a buon diritto: la sua struttura ciclica, il crescendo emotivo, la costruzione sottilmente ossessiva ne fanno una delle perle della new wave europea.
A Forest è più che una canzone: è una visione. È lo smarrimento che diventa arte. Voto: 9,5/10.
2. Play for Today – 1980, Seventeen Seconds (Fiction Records)
“It’s not a case of doing what’s right / It’s just the way I feel that matters / Tell me I’m wrong, I don’t really care“
Il seguito naturale di A Forest eppure più diretto, più tagliente, più umano. L’incipit di Play for Today è uno schiaffo secco: un colpo di batteria solitario, che apre la strada a un intreccio di frasi dissonanti, tastiere fredde e batteria elettronica dal passo marziale.
Tutto il brano è costruito su una tensione interiore che non esplode mai del tutto, ma rimane lì, sospesa, come una conversazione a metà tra due anime che non si capiscono.
Il testo è ambiguo e tagliente. Smith non cerca di avere ragione: espone la sua emotività come un’armatura al contrario, fatta di debolezze e ossessioni.
Play for Today è una riflessione esistenziale su identità e distacco, una poesia asciutta che anticipa il minimalismo concettuale di Faith. La voce è alienata ma sincera, come se parlasse da una cella bianca dove il tempo non esiste più.
Il titolo stesso è emblematico: suonare per oggi, ovvero vivere senza futuro, agire nel qui e ora con la consapevolezza della fragilità del tutto. Un brano dei Cure che dimostra come la band fosse già nel 1980 capace di sondare l’animo umano con una profondità filosofica rara.
Voto: 7,5/10.
3. The Funeral Party – 1981, Faith (Fiction Records)
“This is the end of every song that we sing / This is the end of every story we tell / This is the end of every play we play / This is the end of everything“
Il brano dei Cure più desolato, un vero party funebre dove ogni nota è un passo verso l’abisso, e ogni verso è una messa laica per l’assenza.
The Funeral Party non è solo un pezzo musicale, ma una lenta e inesorabile processione verso il silenzio. La voce di Robert Smith si muove come un sussurro tra le rovine, accompagnata da riff di tastiere che sembrano sospesi nel vuoto, lontani da ogni consolazione.
L’album Faith è la fase più monastica dei Cure, e questo brano ne è il cuore grigio e palpitante.
La poesia decadente qui si fa fede nella scomparsa, nella rinuncia, nel vuoto. Non c’è luce, né speranza, né riscatto. Solo un suono che si spegne lentamente, con una dignità funerea che lo rende un unicum nella discografia dei Cure.
È uno dei migliori brani realizzati dal gruppo, una meditazione sull’assenza che si fa arte rarefatta e dolente. Un brano non per tutti, ma per chi è disposto a contemplare la bellezza della resa.
Curiosamente, questo titolo ha ispirato anche un’omonima canzone dei Les Fauves, band italiana nota per l’approccio irriverente e ironico alla musica alternativa: il loro Funeral Party è quasi un antidoto dissacrante alla solennità dei Cure, un riflesso deformato e grottesco dello stesso concetto.
Due visioni opposte, entrambe valide, entrambe necessarie.
Voto: 8/10.
4. One Hundred Years – 1982, Pornography (Fiction Records)
“It doesn’t matter if we all die / Ambition in the back of a black car / In a high building there is so much to do / Going home time, a story on the radio“
Una delle aperture di un disco più devastanti mai registrate. Con questa frase, i Cure marchiano a fuoco la loro volontà di scavare a mani nude nella psiche e nell’orrore dell’esistenza. One Hundred Years è un’implosione controllata, un climax disturbante e lucido che racconta la disintegrazione dell’individuo sotto il peso della modernità, dell’isolamento, della guerra — interiore ed esteriore.
La batteria elettronica martella come un cuore impazzito, la chitarra è un coltello ruvido che lacera, e il riff di tastiere si aggroviglia come una spirale di vetro. La voce di Smith non implora, non accusa: constata. Descrive la disfatta con una freddezza che gela, e proprio per questo colpisce ancora più a fondo.
L’album Pornography è il punto di non ritorno nella discografia dei Cure, l’abisso a cui solo chi ha il coraggio di guardare può sopravvivere. One Hundred Years è il brano dei Cure per eccellenza se si vuole comprendere il lato più oscuro, più estremo, più vero della band britannica. Nessun compromesso, nessuna speranza: solo la crudele, ossessiva bellezza del vuoto.
Voto: 9/10.
5. The Walk – 1983, Single (Fiction Records)
“I saw you look like a Japanese baby / In an instant I remembered everything“
La band inglese inizia a flirtare con il pop elettronico, ma senza perdere l’inquietudine che la caratterizza.
The Walk dei Cure è un piccolo capolavoro di ambiguità, pubblicato nel 1983 come singolo indipendente dopo il tour emotivamente devastante di Pornography. È il ponte che unisce la disperazione esistenziale dei primi anni Ottanta con la febbre del sabato sera che esploderà di lì a poco in The Head on the Door.
Il brano si apre con un riff di tastiere ipnotico e freddo, quasi infantile, che si intreccia con una batteria elettronica incalzante e meccanica.
La voce di Smith è straniante, sospesa tra ironia e ossessione, tra il desiderio e il senso di colpa. Il testo è ellittico, enigmatico: «look like a Japanese baby» è una frase che suona come una reminiscenza assurda, un cortocircuito affettivo che si scontra con un contesto emotivo fragile. L’incipit è già un enigma, e tutto il brano gioca con l’idea di memoria e illusione.
Con The Walk, i Cure dimostrano di saper cambiare pelle senza snaturarsi, offrendo una gemma che anticipa i suoni della seconda metà del decennio. Un brano dei Cure spesso sottovalutato, ma fondamentale per comprendere la loro evoluzione. Minimalista, brillante, inquieto.
Voto: 8/10.
6. The Lovecats – 1983, Single (Fiction Records)
“We’re so wonderfully wonderfully wonderfully wonderfully pretty / Oh, you know that I’d do anything for you / We should have each other to tea, huh? We should have each other with cream…“
Qui i Cure si travestono da jazz band surreale, ironica, con una teatralità quasi brechtiana.
Il solo di sax ondeggia tra eleganza e caricatura, l’armonica a bocca aggiunge una punta giocosa e malinconica, mentre l’incedere stralunato e da music hall trasporta l’ascoltatore in un universo parallelo dove l’amore è un gioco da salotto, e la seduzione si serve con il tè.
The Lovecats dei Cure si muove in equilibrio precario tra parodia e tenerezza, come un animale notturno che finge di essere domestico.
Pubblicato nel 1983 come singolo autonomo, The Lovecats è una gemma imprevedibile nella discografia dei Cure, una canzone che riesce a essere sia un intermezzo leggero che un’esplorazione del doppio fondo delle relazioni.
Sotto la superficie c’è la stessa inquietudine di sempre: la sensazione che il divertimento sia solo una maschera, fragile come porcellana.
Ancora una volta, i Cure sanno giocare con la forma senza tradire il fondo. Un divertissement agrodolce, una caricatura pop intrisa di ombre feline.
Voto: 8,5/10.
7. In Between Days – 1985, The Head On The Door (Fiction Records)
“Yesterday I got so old I felt like I could die“
Una delle più perfette canzoni d’amore dei The Cure. Breve, intensa, irresistibile, con quell’urgenza esistenziale che solo i Cure sanno trasformare in bellezza.
L’incipit è spiazzante, con il suo tono diretto e vulnerabile: una confessione che sgorga d’impulso, seguita da una melodia che corre veloce come il battito di un cuore ferito.
La voce di Smith qui è pura malinconia in movimento, oscillante tra il rimpianto e la volontà di andare avanti.
L’uso della batteria elettronica, incalzante ma mai invadente, sostiene un intreccio di chitarre leggere ma taglienti, capaci di disegnare il profilo di un amore che si è consumato troppo in fretta.
Il disco The Head On The Door segna l’inizio di una fase più accessibile per la band britannica, ma In Between Days dimostra che pop e profondità emotiva possono coesistere. È un piccolo miracolo di equilibrio tra luce e ombra, tra dolcezza e disperazione.
La melodia è una carezza elettrica, un’apoteosi pop che non perde un grammo di poesia, anzi la amplifica rendendola universale. È una perla da cullare ad occhi chiusi, possibilmente in movimento, tra i pensieri di un mattino difficile o di un addio necessario.
Voto: 9/10.
8. Close to Me – 1985, The Head On The Door (Fiction Records)
“I’ve waited hours for this / I’ve made myself so sick / I wish I’d stayed asleep today / I never thought this day would end“
Claustrofobico, ossessivo, irresistibile. Close to Me dei Cure è un gioco di pressione e rilascio, un’ansia che balla in punta di piedi. L’intro è costruita su batteria elettronica, respiri incalzanti, percussioni minime e il battito ossessivo di un cuore che anticipa il panico. Smith sussurra più che cantare, trascinando l’ascoltatore dentro una mente che si richiude su se stessa.
Il video, con quei personaggi chiusi in un armadio in caduta libera, mi terrorizzava da bambino: un incubo in chiave pop, pari solo al grottesco e visionario Birthday dei Sugarcubes. Eppure, proprio in quella claustrofobia c’era qualcosa di irresistibile, un invito a entrare nell’intimità fragile e grottesca del quotidiano.
Il brano gioca con il formato del singolo radiofonico ma lo decostruisce dall’interno: niente basso, niente chitarra, solo una serie di layer ritmici e melodici che costruiscono una tensione sottile, quasi nevrotica. Close to me non si dimentica. È poesia vestita da jingle, uno dei brani dei Cure più memorabili, capace di rendere la vulnerabilità un’arma estetica.
Voto: 9/10.
9. Just Like Heaven – 1987, Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me (Fiction Records)
“Give me your eyes, that I might see the blind man kissing my hands / And the sand and the sea glows I close my eyes / Move slowly through drowning waves / Going away on a strange day“
Una delle migliori canzoni d’amore mai scritte, eppure anche una delle più enigmatiche. Just Like Heaven è il racconto di un momento perfetto, così puro e intenso da diventare irrecuperabile.
L’intro con quell’arpeggio di chitarra in levare è immediatamente riconoscibile, una dichiarazione d’intenti che apre le porte a una dimensione sospesa tra sogno e realtà.
Il brano è una danza malinconica, un flashback emotivo che si consuma nella consapevolezza che nulla può restare. Il climax emotivo arriva quando la voce di Smith si incrina: «Why won’t you ever know that I’m in love with you?». È amore raccontato non come salvezza, ma come perdita anticipata.
Il suo successo fu talmente ampio da diventare uno dei pezzi più celebri nella discografia dei Cure, un must nelle scalette dei live e allo stesso tempo una traccia capace di parlare al pubblico più vasto senza tradire l’anima tormentata della band britannica.
La cover dei Dinosaur Jr., uscita nel 1989, è un omaggio rumoroso e distorto che amplifica la tensione interna del brano.
J Mascis canta come se stesse franando su sé stesso, trasformando la leggerezza pop della versione originale in un’implosione indie rock. Due approcci diversi, ma ugualmente efficaci nel trasmettere il senso di smarrimento e meraviglia.
Melodico, romantico, straziante. Voto: 9,5/10.
10. Lullaby – 1989, Disintegration (Fiction Records)
“And I feel like I’m being eaten / By a thousand million shivering furry holes / And I know that in the morning / I will wake up in the shivering cold“
Una ninna nanna per adulti disturbati, un incubo gotico sussurrato con voce carezzevole: Lullaby è una delle canzoni più inquietanti e affascinanti dell’intera discografia dei Cure. Il protagonista è intrappolato nella propria mente, divorato da un’entità indefinita — lo spiderman — che potrebbe essere tanto una creatura immaginaria quanto una metafora della depressione o dell’ansia.
L’arrangiamento è avvolgente, seducente e allo stesso tempo profondamente claustrofobico.
La batteria elettronica tesse una tela ipnotica, le frasi dissonanti delle tastiere si intrecciano a un arpeggio di chitarra quasi liquido, mentre la voce di Smith, ridotta a un sussurro, sembra sprofondare dentro un sogno morboso da cui non si può uscire.
Ma ciò che rese Lullaby davvero leggendaria fu anche il suo video, trasmesso nel 1989 su DeeJay Television e presentato da Linus come non solo un grande ritorno sulle scene della band britannica, ma una vera e propria avventura nuova, dirompente, coraggiosa, rivoluzionaria.
Linus ne esaltò il carattere cinematografico, oscuro e stilizzato, quasi a voler dire: i Cure sono tornati, ma hanno cambiato forma. Non più solo tristezza e depressione, ma un’ossessione visiva degna di un film di David Lynch.
Nel contesto dell’album Disintegration, Lullaby brilla come una delle gemme più strane e potenti, un singolo che sfida ogni regola radiofonica per diventare una hit universale. È poesia decadente che striscia lungo le pareti della mente. Una perla nera. Un capolavoro assoluto.
Voto: 10/10.
Un’ultima dichiarazione
I Cure hanno attraversato gli anni ’80 come pochi altri. Hanno vissuto l’epoca dell’edonismo e l’hanno trasformata in una tela di poesia decadente, tristezza elegante e visionarietà musicale. Hanno esplorato il pop, il post-punk, l’elettronica, il jazz surreale, senza mai perdere l’anima.
A chi chiede: Chi scrive le canzoni dei Cure?, la risposta è semplice: Robert Smith, con la sua penna intrisa di sogni, lacrime e intuizioni.
Grazie a Robert il sogno continua. O forse un incubo senza fine. Dopo anni di attesa, speculazioni e promesse, “Songs of a Lost World” ha finalmente visto le tenebre, confermando che l’attesa può ancora trasformarsi in meraviglia. Non più una chimera, ma una realtà sonora che si aggiunge, con grazia malinconica, alla già vasta e leggendaria discografia della band britannica.
E allora, che sia Faith, Pornography o Disintegration, che sia il suono di un’armonica a bocca o una frase dissonante suonata in punta di dita: i Cure sono ancora lì.
Poco cambia che non sia più il tasto di un Walkman o una playlist di Spotify. Ogni volta che premi play, è come fosse la prima volta. Un nuovo appuntamento con l’assoluto.
Ogni ascolto è come riaprire un libro che non smette mai di svelare nuove pagine. Un classico senza tempo che è sempre un piacere sfogliare. Occhio alla polvere.